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A
A

«Yara.»

«Cosa?»

«Vieni con me.»

Sutty lo seguì nella Caverna dell’Albero. Odiedin passò accanto alla tenda di Yara. C’era molta gente lì attorno, ma Sutty non vide Yara. Odiedin proseguì svelto attraverso la piccola caverna col fondo accidentato, e imboccò il breve passaggio che conduceva all’esterno e terminava con l’apertura ad arco dove si insinuarono avanzando carponi.

Odiedin si drizzò, appena fuori dal cunicolo. Sutty sbucò accanto a lui. Mancava ancora parecchio al levar del sole, ma il pallore del cielo sembrava meravigliosamente fulgido e smisurato dopo l’oscurità angusta delle caverne.

«Guarda dov’è andato» disse Odiedin.

Sutty abbassò gli occhi nella direzione indicata dal maz. La neve arrivava alla caviglia sul fondo della conca. Dall’imboccatura del cunicolo dove si trovavano, delle impronte di scarponi andavano dritte fino all’orlo della conca e tornavano indietro, orme di tre o quattro persone, a quanto sembrava.

«Non le orme» disse Odiedin. «Quelle sono nostre. Lui era carponi. Non poteva camminare. Non so come abbia fatto a strisciare su quel ginocchio. È un tratto lungo.»

E Sutty vide i segni nella neve, segni profondi, solchi. Tutte le impronte di scarponi erano ben lontane, a sinistra.

«Nessuno l’ha sentito. Dev’essere uscito strisciando dopo mezzanotte.»

Abbassando lo sguardo, vicino all’imboccatura ad arco del cunicolo, dove la neve formava uno strato sottile sulla roccia nera, Sutty scorse l’impronta confusa di una mano.

«Là sull’orlo si è alzato in piedi» disse Odiedin. «Per riuscire a saltare.»

Sutty emise un gemito soffocato. Si rannicchiò, dondolando un po’ il proprio corpo. Le lacrime non vennero, ma aveva la gola serrata, stentava a respirare.

«Penan Teran» disse. Odiedin non capì. «Sul vento» aggiunse Sutty.

«Non doveva farlo.» La voce di Odiedin era rabbiosa, desolata. «Ha sbagliato.»

«Lui pensava che fosse giusto» disse Sutty.

Nove

L’aereo dell’Azienda che la stava portando da Soboy, in Amareza, a Dovza City, guadagnò quota sopra la parte orientale della Catena delle Sorgenti. Guardando dal finestrino in direzione ovest, Sutty vide una grande, massiccia, montagna scoscesa: lo Zubuam. E poi, dietro il monte, la candida e poderosa parete del Silong, che nascondeva chissà dove, nella sua luminosa immensità, la conca e le caverne dell’essere. Sopra il margine superiore seghettato della parete, all’altezza degli occhi di Sutty, il corno del Silong si stagliava biancodorato contro il blu. Lo vide tutto, intero, quell’unica volta. L’impalpabile pennacchio eterno sventolava verso nord dalla cima.

Il viaggio a sud era stato duro, due lunghe settimane, su un percorso agevole ma con un tempo inclemente per gran parte del tragitto; e Sutty non aveva avuto un attimo di pace a Soboy. La polizia dell’Azienda sorvegliava ogni strada che usciva dalla Catena delle Sorgenti. Dei funzionari, molto cortesi, molto tesi, aspettavano il gruppetto di Sutty appena dentro la città. «L’Osservatrice deve raggiungere in aereo la capitale, immediatamente» avevano detto.

Sutty aveva chiesto di contattare per telefono Tong Ov, e loro le avevano chiamato il rappresentante dell’Ekumene dal campo d’aviazione. «Vieni qui, il più presto possibile» aveva esordito Tong Ov. «C’è stata molta preoccupazione. Siamo tutti contenti che tu sia tornata sana e salva. Sia gli akani che gli extraplanetari. Soprattutto l’extraplanetario che ti sta parlando.»

Sutty aveva replicato: «Prima devo assicurarmi che i miei amici non abbiano dei problemi».

«Portali con te» aveva detto Tong.

Così adesso Odiedin e le due guide del villaggio delle colline pedemontane a ovest di Okzat-Ozkat sedevano insieme nei tre sedili dietro quello di Sutty. Lei non aveva idea di cosa pensassero Long e Ieyu di quell’avventura imprevista. Odiedin gli aveva spiegato qualcosa e li aveva rassicurati un po’, e loro erano saliti a bordo impassibili. Erano tutti e quattro stanchi, intontiti, esausti.

L’aereo virò verso est. Quando guardò ancora in basso, Sutty vide il giallo delle colline senza neve, la striscia argentea di un fiume. L’Ereha. Figlio della Montagna. Seguirono il filo d’argento, che a poco a poco si allargava e diventava di un colore grigio opaco, fino a Dovza City.

«La cultura base, sotto lo strato dovzano, non è verticale, non è militante, non è aggressiva, e non è progressista» disse Sutty. «È orizzontale, uniforme, mercantile, discorsiva e omeostatica. Nei momenti di crisi, credo che facciano ricorso a questa struttura culturale. Penso che possiamo trattare con loro.»

Napoleone Bonaparte chiamava gli inglesi una nazione di bottegai, le disse nella mente zio Hurree. Forse non è una cosa del tutto negativa, eh?

Sutty aveva troppe cose nella testa. Troppe cose da raccontare a Tong. Troppe cose da sentire da lui. Avevano avuto poco più di un’ora per parlare, e i Dirigenti e i Ministri dovevano arrivare da un momento all’altro.

«Trattare?» chiese Tong Ov. Stavano parlando in dovzano, dato che era presente Odiedin.

«Sono in debito con noi» disse Sutty.

«In debito con noi?»

Chiffewar non era una cultura militante né mercantile. C’erano concetti che i chiffewariani, nonostante la loro apertura mentale e il loro acume, stentavano ad afferrare.

«Dovrai fidarti di me» disse Sutty.

«Mi fido. Ma, per favore, spiegami, anche se in modo criptico, di cosa si tratta.»

«Be’, se sei d’accordo sul fatto che dovremmo cercare di salvaguardare la Biblioteca del Silong…»

«Sì, certo, in linea di principio. Ma se questo comporta ingerenze nella politica akana…»

«Sono settant’anni che c’ingeriamo nella vita di Aka.»

«Ma come avremmo potuto negare arbitrariamente delle informazioni agli akani… dato che non potevamo annullare quel primo dono enorme di dati tecnologici?»

«Penso che il nocciolo della questione sia proprio questo: il fatto che non è stato un dono. Aveva un prezzo: conversione spirituale.»

«I missionari» disse Tong, annuendo. Prima, nella loro discussione affrettata, aveva dimostrato una normale soddisfazione umana nel vedere confermata la sua ipotesi.

Odiedin ascoltava, solenne, attento.

«Gli akani l’hanno considerata usura. Si sono rifiutati di pagare. Da allora, in realtà, noi gli abbiamo dato più informazioni di quante ne chiedessero.»

«Cercando di dimostrare agli akani che esistono metodi meno rapaci e meno distruttivi… sì.»

«Il fatto è che abbiamo sempre dato tutto gratis, gliel’abbiamo offerto.»

«Naturalmente» fece Tong.

«Ma gli akani pagano quello che ricevono. In contanti, subito. Secondo loro, non hanno pagato tutti i progetti della Marcia verso le Stelle, né tutto il resto che è venuto dopo. Da decenni aspettano che noi gli diciamo cosa ci devono. Finché non lo faremo, non si fideranno di noi.»

Tong si tolse il cappello, si strofinò la testa bruna satinata, poi si rimise il cappello calandolo di più sugli occhi. «Quindi, noi dobbiamo chiedergli in cambio delle informazioni?»

«Esatto. Gli abbiamo dato un tesoro. Loro hanno un tesoro che ci interessa. Una mano lava l’altra, come diciamo nel mio paese.»

«Ma per loro non è un tesoro. È sedizione, è un cumulo di superstizioni putride. No?»

«Be’, sì e no. Penso che sappiano che è un tesoro. Se non lo sapessero, perché prendersi la briga di farlo saltare in aria?»

«Allora non dobbiamo convincerli che la Biblioteca del Silong è preziosa?»

«Be’, vogliamo che sappiano che vale almeno quanto le informazioni che noi gli abbiamo dato. E che il suo valore dipende per noi dalla libertà di accesso a quel materiale. Proprio come loro hanno libero accesso a tutte le informazioni che gli abbiamo dato.»

«Una mano leva l’altra» disse Tong, afferrando il concetto, se non l’espressione corretta.

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