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Il vero Controllore in carne e ossa doveva aver lasciato Okzat-Ozkat; Sutty non lo vedeva da settimane. Era un sollievo. Lo preferiva di gran lunga come figura immaginaria da bistrattare.

Aveva smesso di chiedere cosa facevano i maz. Anche un bambino di pochi anni avrebbe saputo rispondere a quella domanda. I maz raccontavano. Narravano, leggevano, recitavano, discutevano, spiegavano e inventavano. La materia infinita delle loro narrazioni non era fissa e non si poteva definire. E continuava a crescere, perfino adesso; perché non tutti i testi erano appresi da altri, non tutte le storie risalivano all’antichità, non tutte le idee e i pensieri erano stati tramandati nel corso degli anni.

La prima volta che incontrò Odiedin Manma fu in occasione di una narrazione, quando il maz raccontò la storia di un giovane, l’abitante di un villaggio delle colline pedemontane del Silong, che sognava di volare. Il giovane sognava di volare così spesso e in modo così vivido che a un certo punto cominciò a scambiare i sogni per la realtà. Descriveva le sensazioni del volo e le cose che vedeva dall’aria. Disegnava mappe di bellissime terre sconosciute dall’altra parte del mondo, nuove terre scoperte durante i suoi voli. La gente andava a sentire i suoi racconti e a vedere le mappe meravigliose. Ma un giorno, scendendo in un burrone mentre inseguiva un eberdin fuggito dal gregge, mise un piede in fallo, precipitò, e rimase ucciso.

La storia terminava così. Odiedin Manma non fece commenti, e nessuno gli rivolse domande. La narrazione si svolgeva a casa dei maz Ottiar e Uming. Più tardi, Sutty chiese delucidazioni a maz Ottiar Uming, perché quella storia l’aveva lasciata perplessa.

La vecchia disse: «Il compagno di Odiedin, Manma, è rimasto ucciso in una caduta quando aveva ventisette anni. Erano maz da un anno appena».

«E Manma sognava di volare?»

Ottiar Uming scosse il capo. «No» rispose. «Quella è la storia. La storia di Odiedin Manma, yoz. Lui racconta quella. Il resto della sua narrazione è nel corpo.» Si riferiva agli esercizi fisici, alle attività ginniche, di cui Odiedin era un insegnante molto stimato.

«Capisco» annuì Sutty, e se ne andò, riflettendo.

Sapeva una cosa, aveva imparato di sicuro una cosa, lì a Okzat-Ozkat: aveva imparato ad ascoltare. Ascoltare, sentire, continuare ad ascoltare ciò che aveva sentito. Portare con sé le parole e ascoltarle. Se il compito dei maz era narrare, il compito degli yoz era ascoltare. Come facevano notare tutti, i maz non servivano a nulla senza gli yoz, e viceversa.

Cinque

L’inverno arrivò con poca neve ma freddissimo, con venti che soffiavano sferzanti dall’immensa distesa desolata di montagne a ovest e a nord. Iziezi portò Sutty in un negozio di abbigliamento usato, a comprare un cappotto di pelle, consunto ma robusto, foderato di morbido vello. La fodera del cappuccio era la soffice pelliccia di un animale di montagna, a proposito del quale Iziezi commentò: «Tutti scomparsi, adesso. Troppi cacciatori». Disse che la pelle dell’indumento non era di eberdin, come aveva pensato Sutty, ma di minule, una specie d’alta montagna. Il cappotto le scendeva sotto il ginocchio, fino agli stivali leggeri foderati di lana. Questi erano nuovi, fatti di materiali sintetici, adatti agli sport e alle escursioni in montagna. La gente legata alle usanze passate accettava le nuove tecnologie e i nuovi prodotti, purché funzionassero meglio dei vecchi e non comportassero alcun cambiamento significativo del loro modo di vivere. A Sutty quello sembrava un conservatorismo profondo ma ragionevole. Per un’economia basata sullo sviluppo continuo, tuttavia, era una maledizione.

Sutty percorreva con passo pesante le strade ghiacciate indossando il vecchio cappotto e gli stivali nuovi. In inverno, a Okzat-Ozkat, tutti si assomigliavano, imbacuccati nei cappotti di pelle con cappuccio imbottito, tranne i burocrati in divisa, che a loro volta sembravano tutti uguali nei loro indumenti pesanti di fibra sintetica dai colori vistosi, blu, ruggine, viola. Il freddo inclemente creava una specie di cameratesco anonimato. Quando si entrava in qualche luogo chiuso, il tepore era una fonte immancabile di sollievo, piacere, senso di solidarietà. In una sera lugubre e pungente, arrancare lungo le strade ripide fino a raggiungere qualche stanzetta buia dall’aria viziata e radunarsi con gli altri accanto al focolare — una stufetta elettrica, perché c’era poca legna lì, vicino al limite della vegetazione arborea, e tutto il calore era generato dalla gelida energia del fiume Ereha — e togliersi le muffole e strofinarsi le mani, che sembravano così nude e delicate, e guardare le altre facce bruciate dal vento e le ciglia imperlate di ghiaccio, e sentire il piccolo tamburo che rullava tatat tatat, e la voce sommessa che cominciava a parlare, elencando i nomi dei fiumi di Hoying che confluivano l’uno nell’altro, o raccontando la storia di Ezid e Inamena sulla Montagna di Gam, o descrivendo come il Consiglio di Mez avesse radunato un esercito contro i selvaggi occidentali… tutto questo rappresentò per Sutty un’esperienza piacevolissima, sicura, concreta, continua, durante tutto l’inverno.

I selvaggi occidentali, adesso lo sapeva, erano i dovzani. Quasi tutto quello che i maz insegnavano, leggende e storia e filosofia, proveniva dal centro e dall’est del grande continente, e da secoli addietro, millenni addietro. Da Dovza proveniva solo la lingua che parlavano, ma lì era infarcita di parole della lingua originale di quella regione, il rangma, e di altri idiomi.

Parole. Un mondo fatto di parole.

C’era della musica. Alcuni maz intonavano canti curativi come quelli registrati da Tong Ov nella metropoli; altri suonavano strumenti a corda, con l’archetto o pizzicati, per accompagnare ballate e canzoni. Sutty registrava quella musica quando poteva, anche se la sua ottusità musicale le impediva di apprezzarla. Un tempo c’erano arte, sculture e dipinti e arazzi, coi simboli dell’Albero e della Montagna e figure ed episodi delle leggende e delle storie. C’era stata la danza, ed esistevano ancora le varie forme di esercizio fisico e di meditazione mobile. Ma innanzitutto c’erano le parole.

Quando i maz si appoggiavano sulle spalle il manto della loro carica — un piccolo pezzo di stoffa sottile, rosso o blu — venivano percepiti come portatori di un’autorità sacra, un potere sacro. Quello che dicevano allora faceva parte della Narrazione.

Quando si toglievano la sciarpa tornavano alla condizione normale, non vantavano alcuna autorità spirituale, quello che dicevano allora contava quanto le parole di chiunque. Certe persone, naturalmente, insistevano nell’attribuire ai maz un’autorità permanente. Come la gente della tribù di Sutty, molti akani desideravano seguire un capo, versare tributi invece di pagare prestazioni, scaricare la responsabilità sulle spalle di qualcun altro. Ma se i maz avevano una qualità in comune, era un’ostinata modestia. Non miravano a diventare figure carismatiche. Maz Imyen Katyan era uno degli uomini più gentili che Sutty avesse mai conosciuto, ma quando una donna si rivolse a lui con un titolo ossequioso, "munan", usato per i maz famosi dei racconti e della storia, lui la redarguì rabbioso: «Come osi chiamarmi così?» e poi, calmatosi, aggiunse: «Quando sarò morto da cent’anni, yoz».

Poiché ogni aspetto dell’attività professionale dei maz era una violazione della legge e comportava un rischio personale considerevole, Sutty aveva creduto che parte di quello stile modesto, quel restare in ombra, fosse un atteggiamento recente. Ma quando lo disse, maz Ottiar Uming scosse la testa.

«Oh, no» replicò la vecchia. «Dobbiamo nasconderci, tenere tutto segreto, sì. Ma penso che all’epoca dei miei nonni la maggior parte dei maz vivessero come viviamo adesso. Nessuno può portare la sciarpa in continuazione! Neppure maz Elyed Oni… Certo, negli umyazu era diverso.»

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