Ursula Le Guin
La salvezza di Aka
Il mio primo errore l’ho fatto il giorno che sono nato,
e da allora non ho mai smesso
di cercare la saggezza su questo cammino.
MAHABHARATA
Uno
Quando Sutty tornava sulla Terra di giorno, era sempre al villaggio. Di notte, era nella Riserva.
Il giallo dell’ottone, il giallo della pasta di curcuma e del riso cotto con lo zafferano, l’arancione delle calendule, l’opaca foschia aranciata del pulviscolo del tramonto sopra i campi, rosso henné, rosso passiflora, rosso sangue secco, rosso fango: tutti i colori della luce del sole durante il giorno. Una zaffata di assafetida. Il mormorio d’acqua di ruscello di Zietta che chiacchierava con la madre di Moti nella veranda. La mano scura di zio Hurree immobile su una pagina bianca. Il benevolo occhietto porcino di Ganesh. Un fiammifero acceso, e l’intensa voluta grigia di fumo d’incenso: penetrante, vivido, dissolto. Fragranze, immagini fuggevoli, echi che le vagavano o le baluginavano nella mente quando camminava nelle strade, o mangiava, o si concedeva un attimo di sosta sottraendosi all’aggressione sensoriale dei quasiveri che doveva subire, di giorno, sotto l’altro sole.
Ma la notte era uguale su qualsiasi mondo. L’assenza di luce non era altro che quello. E nell’oscurità, lei si trovava nella Riserva. Non in sogno, mai in sogno. Sveglia, prima di dormire o quando si svegliava dal sogno, turbata e tesa, e non riusciva a riaddormentarsi. Una scena cominciava a manifestarsi, non in dolci e vividi frammenti, ma nel ricordo completo di un luogo e di un arco di tempo; e una volta iniziati i ricordi, lei non poteva fermarli. Doveva riviverli finché non l’abbandonavano. Forse era una specie di punizione, simile a quella degli amanti nell’Inferno dantesco, ricordare il tempo felice. Ma quegli amanti erano fortunati, ricordavano insieme.
La pioggia. Il primo inverno con la pioggia di Vancouver. Il cielo simile a un tetto di piombo che gravava sulla sommità degli edifici, appiattendo e sfumando le imponenti montagne nere che si stagliavano dietro la città. A sud, l’acqua grigia e agitata del braccio del Sound, sotto cui giaceva Vancouver Vecchia, sommersa tempo addietro dall’aumento del livello del mare. Nevischio nero su luccicanti strade asfaltate. Vento, il vento che la faceva uggiolare come un cane e rannicchiare, rabbrividendo sbigottita ed euforica, tonificata, tanto era furioso e folle, quel vento freddo dell’Artico, respiro gelido dell’orso polare. Le penetrava sotto la giacca troppo leggera, però gli stivali erano caldi, brutti stivaloni neri di plastica che sguazzavano nei rigagnoli, e presto sarebbe arrivata a casa. Ti faceva sentire al sicuro, quel freddo tremendo. La gente si affrettava e lasciava in pace il prossimo, odi e passioni congelati. Le piacevano il Nord, il freddo, la pioggia, la bella e tetra città.
Zietta sembrava così piccola, lì, piccola ed effimera, come una farfallina. Un sari di cotone rosso e arancione, cerchietti d’ottone ai polsi da insetto. Sebbene ci fossero molti indiani e indo-canadesi, lì, molti fra i vicini, Zietta sembrava piccola perfino tra loro, una profuga, fuori posto. Il suo sorriso pareva estraneo e di scusa. Zietta doveva portare sempre calze e scarpe. Solo quando si accingeva ad andare a letto i suoi piedi riapparivano, i piccoli piedi bruni così forti che, al villaggio, erano sempre stati una parte visibile di lei, come le mani e gli occhi. Lì, i suoi piedi erano chiusi in guaine di cuoio, amputati dal freddo. Così, non camminava molto, non correva qua e là per la casa, non si affaccendava in cucina. Sedeva vicino alla stufetta in soggiorno, avvolta in una coperta di maglia di lana stinta e sbrindellata, una farfalla che tornava nel bozzolo. Che si allontanava, si allontanava sempre più, ma non camminando.
Per Sutty adesso era più facile intendersi con mamma e papà — conosciuti a malapena negli ultimi quindici anni — che con Zietta, che le aveva sempre offerto rifugio in grembo e tra le braccia. Era delizioso scoprire i propri genitori, l’intelligenza e lo spirito bonario della mamma, gli sforzi timidi e goffi del padre di dimostrarle affetto. Conversare con loro da adulta, consapevole del grande amore che nutrivano per la loro bambina… era facile, e delizioso. Parlavano di tutto, imparando a vicenda. Mentre Zietta rimpiccioliva, si distaccava silenziosa, in modo ambiguo, dando l’impressione di non andare in nessun posto, di tornare al villaggio, alla tomba di zio Hurree.
Arrivò la primavera, arrivò la paura. La luce del sole tornò a nord, alta e pallida come un adolescente, un vago fulgore argenteo. Piccoli susini rosa fiorirono lungo tutte le vie trasversali del quartiere. I Padri dichiararono che il Trattato di Pechino era in contrasto con la Dottrina dell’Unico Destino e andava abrogato. Le Riserve dovevano essere aperte, dissero i Padri, ai loro abitanti doveva essere consentito di ricevere la Luce Santa, le loro scuole dovevano essere mondate dalla miscredenza, purificate dall’errore alieno e dalla devianza. Chi fosse rimasto attaccato al peccato sarebbe stato rieducato.
La mamma andava ogni giorno agli uffici del Collegamento e rincasava tardi, cupa in viso. «Questo è il loro attacco decisivo» diceva. «Se fanno una cosa del genere, non ci resta che darci alla clandestinità.»
Verso la fine di marzo, una squadriglia di aerei dell’Esercito di Dio volò dal Colorado al Distretto di Washington e bombardò la Biblioteca: un aereo dopo l’altro, quattro ore di bombardamento che ridussero in cenere secoli di storia e milioni di libri. Washington non era una Riserva, ma il bell’edificio antico, anche se sorvegliato e spesso chiuso, non era mai stato attaccato; aveva superato indenne tutti i disordini e la guerra, lo sfacelo e la rivoluzione, fino a quel giorno. Il Tempo della Purificazione. Il Comandante Supremo degli Eserciti di Dio annunciò il bombardamento mentre l’operazione era in corso, dicendo che si trattava di un’azione educativa. Un solo Verbo, un solo Libro. Tutte le altre parole, tutti gli altri libri erano tenebra, ignoranza, errore. Immondizia. «Dio brilli radioso!» gridavano i piloti in uniforme bianca e maschera speculare, nella chiesa della base aerea in Colorado, fronteggiando anonimi le telecamere e la folla che cantava e ondeggiava in estasi. «Eliminiamo il sudiciume, e Dio brilli radioso!»
Ma Dalzul, il nuovo inviato giunto da Hain l’anno prima, stava parlando con i Padri. I Padri l’avevano ammesso nel Sancta Sanctorum. C’erano quasiveri e olo e 2D di Dalzul in rete e in Verbo Divino. Sembrava che il Comandante Supremo degli Eserciti non avesse ricevuto ordine dai Padri di distruggere la Biblioteca di Washington. L’errore non era stato del Comandante Supremo, naturalmente. I Padri non commettevano errori. Lo zelo dei piloti era stato eccessivo, la loro azione non autorizzata. Dal Sancta Santorum giunse un ordine: i piloti dovevano essere puniti. E i piloti furono portati fuori, di fronte alla truppa e alle telecamere e alla folla, e spogliati pubblicamente delle armi e delle uniformi bianche. Furono tolti loro i cappucci, le facce vennero messe a nudo. E li condussero via, coperti di vergogna, alla rieducazione.
Tutto questo era nella rete, anche se Sutty poteva osservare senza dover partecipare direttamente, dato che papà aveva staccato i collegamenti corporei della realtà virtuale. E ne parlava anche Verbo Divino, che dava pure grande spazio al nuovo inviato. Dalzul era un terrestre. Nato proprio lì sulla Terra, il pianeta di Dio, dicevano. Un uomo che capiva gli uomini della Terra come nessun extraterrestre sarebbe mai stato in grado di fare, dicevano. Un uomo delle stelle che veniva a inginocchiarsi ai piedi dei Padri e a discutere dell’attuazione delle intenzioni pacifiche del Sant’Uffizio e dell’Ekumene.