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Il suo uso delle parole era speciale: "dividere" significava "dividere la tenda", "dormire" significava "unire i sacchi a pelo".

Quando se ne rese conto, Sutty fu ancor più indecisa; ma l’atteggiamento di passività che aveva assunto volutamente nel corso del viaggio fu più forte dell’esitazione, e acconsentì. Non le era importato molto del sesso, dalla morte di Pao. A volte, il suo corpo moriva dalla voglia di essere toccato ed eccitato. Il sesso era qualcosa che la gente desiderava, qualcosa di cui aveva bisogno. Sutty poteva partecipare fisicamente, purché non le chiedessero altro.

Kieri era forte, morbida, calda, e pulita nei limiti consentiti dalle circostanze. «Scaldiamoci!» diceva ogni notte, infilandosi nei sacchi a pelo attaccati. Faceva l’amore con Sutty in modo rapido ed energico, poi si addormentava, stringendosi alla compagna. Erano come due ciocchi in un fuoco acceso, che bruciavano a poco a poco, pensava Sutty, sprofondando in un sonno caldo.

Per Akidan era stato un onore dividere la tenda col proprio maestro e insegnante, però il ragazzo era seccato o deluso per l’abbandono di Kieri. Per un paio di giorni le tenne il broncio, poi rivolse l’attenzione alla donna che si era unita al gruppo nel villaggio. Le nuove guide erano fratello e sorella, una coppia di ventenni instancabili, gambe lunghe e viso tondo, di nome Naba e Shui. Dopo un paio di giorni, Akidan si trasferì nella tenda di Shui. Odiedin, paziente, invitò Naba a sistemarsi nella propria tenda.

Cosa aveva detto Diodi, l’uomo del carretto, anni prima, ad anni luce da lì, laggiù, nelle strade dove viveva quell’altra gente? «Sesso per trecento anni! Dopo trecento anni di sesso, chiunque può volare!»

"Posso volare" pensò Sutty, arrancando, scendendo verso sudovest. "Nel mondo in realtà non esistono che pietra e luce. Tutte le altre cose, tutte le cose, confluiscono in questa dualità… la pietra, la luce, e i due elementi in uno, il volo… E poi tutto rinascerà, tutto rinasce, sempre, in ogni istante rinasce, ma continuamente esiste solo l’uno, il volo…" E continuò ad arrancare nello splendore.

Giunsero al Grembo della Terra.

Pur sapendo che era assurdo, impossibile, sciocco, la sua immaginazione aveva insistito fin dall’inizio che la meta del loro viaggio sarebbe stata un grande tempio, una città misteriosa nascosta in cima al mondo, bastioni di pietra, bandiere spiegate, sacerdoti che cantavano, oro e gong e processioni. Tutte le immagini mitiche di luoghi quali Lhasa, la Montagna del Drago-Tigre, Machu Picchu. Tutte le rovine della Terra.

Per tre giorni, scesero le erte pendici occidentali dello Zubuam, con un tempo nuvoloso, riuscendo a vedere di rado la parete del Silong al di là del vasto abisso d’aria dove il vento rincorreva spire di nubi e turbini di neve spettrali che non si posavano mai. Seguirono le guide per un giorno intero, attraverso nuvole e nebbia, avanzando su una ruga, un lungo costone di roccia innevata con un precipizio da ambedue i lati.

All’improvviso, il tempo si rasserenò, le nuvole sparirono, il sole brillò allo zenit. Sutty rimase disorientata, alzando lo sguardo verso la grande parete e non trovandola. Odiedin le si accostò. Sorridendo, disse: «Siamo sul Silong».

Erano passati dall’altra parte, avevano attraversato il baratro. L’enorme massa di roccia e ghiaccio dietro di loro, a est, era lo Zubuam. Una valanga rotolò fumando da una parete rocciosa nella parte superiore della montagna. Molto tempo dopo, si udì il suo fragore profondo: il Tonante raccontava ai viaggiatori quello che aveva da dire.

Lo Zubuam e il Silong, erano due e uno, anch’essi. Vecchie montagne maz. Vecchie amanti.

Sutty guardò il Silong. Le alture della grande parete si ergevano proprio sopra di loro, celando la vetta. Il cielo era uno squarcio brillante frastagliato, da nord a sud.

Odiedin stava indicando verso sud. Sutty guardò, e vide solo roccia, ghiaccio, lo scintillio dell’acqua di disgelo. Niente torri, niente bandiere.

Ripresero il cammino, faticosamente. Erano su un sentiero, piano e abbastanza sgombro, segnato qua e là da cumuli di pietre piatte. Spesso, ai lati, si vedevano pallottole secche di sterco di minule.

A metà pomeriggio Sutty scorse, più avanti, un paio di guglie di roccia che spuntavano da un angolo sporgente della montagna, come zanne dalla mascella inferiore di un cranio. Il sentiero si restringeva, avvicinandosi a quell’angolo, diventava una cornice sul fianco di un dirupo. Quando giunsero all’angolo, le due zanne rossastre di roccia si innalzavano davanti a loro come una porta, e il sentiero passava tra di esse.

Lì, si fermarono. Tobadan tirò fuori il proprio tamburo e lo suonò, i tre maz parlarono e cantarono. Le parole erano tutte in rangma e così antiche o formalizzate che Sutty non riuscì a comprenderne il significato. Le due guide del villaggio e le loro guide frugarono negli zaini ed estrassero dei piccoli fasci di ramoscelli legati con filo rosso e blu. Li diedero ai maz, che li presero facendo il gesto della montagna e del cuore, rivolti verso il Silong. Li incendiarono e li misero a bruciare tra le rocce accanto al sentiero. Il fumo sapeva di salvia, un incenso secco. Piccole volute azzurre si levarono lente tra le rocce e lungo il sentiero. Il vento soffiava, un fiume d’aria turbolenta che si riversava nella grande apertura tra le montagne, ma lì, in quel punto d’accesso, il Silong li riparava e non c’era un alito di vento.

Raccolsero gli zaini e si misero di nuovo in fila, passando tra le rocce che sembravano denti a sciabola. Il sentiero adesso piegava all’interno, verso il fianco della montagna, e Sutty vide che attraversava un circo glaciale, un avvallamento a mezzaluna dal fondo piano, nel fianco della montagna. Nella parete interna, curva, quasi verticale, distante ancora circa mezzo chilometro, c’erano dei punti neri o dei fori. Sul fondo della conca c’era della neve, calpestata da un arabesco di sentieri che andavano e venivano da quei buchi neri nella montagna.

"Caverne" le sussurrò nella mente Adien, l’ex minatore sfregiato, morto di itterizia durante l’inverno. "Caverne piene di essere."

L’aria sembrò addensarsi come sciroppo e tremolare, vibrare. Sutty ebbe un capogiro. Il vento le ruggì negli orecchi, intenso, stridulo, terribile. Ma erano al riparo dal vento, lì, nell’aria soleggiata della conca. Si voltò, confusa, poi alzò lo sguardo terrorizzata verso la frana che le piombava addosso strepitando. Ombre nere attraversarono l’aria, il frastuono era assordante. Sutty si rannicchiò, si coprì la testa con le braccia.

Silenzio.

Guardò in su, si raddrizzò. Gli altri erano tutti in piedi, come lei, statue nel sole vivido, chiazze d’ombra nera ai loro piedi.

Dietro di loro, tra le zanne, tra le guglie di roccia della porta, penzolava o era accartocciato qualcosa. Luccicava abbagliante ed era nero come le tenebre, come un modulo d’atterraggio visto dalla nave nello spazio. Un modulo d’atterraggio… un avio… un elicottero. Sutty vide la pala del rotore incastrata nella guglia di roccia esterna. «Oh, Rama» disse.

«Madre Silong» mormorò Shui, portando al cuore una mano serrata a pugno

Poi si avviarono verso la porta d’accesso, verso il veicolo, preceduti da Akidan, che stava correndo.

«Aspetta, Akidan!» gridò Odiedin, ma il ragazzo era già arrivato vicino al veicolo, ai rottami. Akidan rispose, urlando qualcosa. Odiedin si mise a correre.

Sutty non riusciva a respirare. Dovette fermarsi un po’ e calmare i battiti del cuore. La più anziana delle guide della zona pedemontana, Long, un uomo gentile e schivo, era accanto a lei, e al pari di lei stava tremando, stava cercando di respirare a un ritmo regolare, senza affanno. Erano scesi, ma si trovavano ancora a diciottomila pieng, aveva detto Siez a Sutty, seimila metri, l’aria era rarefatta, molto rarefatta. Sutty ripeté quei numeri nella propria mente.

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