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Era uno strano posto, quella lunga valle. L’aria gelida scendeva dai ghiacciai e ristagnava lì in basso. Fantasmi di bruma serpeggiavano sulla candida neve immota.

Le loro provviste scarseggiavano. Dovevano essere vicini alla meta, secondo Sutty.

Invece di uscire dalla valle salendo, come si aspettava, scesero procedendo su un lungo e ampio pendio disseminato di massi. Il vento soffiava senza posa, e con tale forza che la ghiaia continuava a battere contro i macigni più grandi. Ogni passo era difficoltoso, e anche ogni respiro. Alzando lo sguardo, adesso, si vedeva il Silong molto più vicino, la grande parete si stagliava imponente nel cielo. Ma la cresta impennacchiata era ancora lontana dietro la barriera. Quella notte, Sutty continuò a sognare una voce, che udiva ma non capiva, una gemma che aveva trovato ma non poteva toccare.

Il giorno dopo continuarono a scendere, a scendere sempre più in direzione sudovest. Nella mente annebbiata di Sutty, si formò un canto: "Se indietreggi per avanzare, non puoi riuscire. Se scendi per salire, non puoi riuscire". Non voleva andarsene dalla sua testa, continuava a risuonare martellante a ogni passo, a ogni sobbalzo… Se "scendi" per "salire", non puoi "riuscire"…

Giunsero a un sentiero che attraversava il pendio di massi, poi a una strada, a un muro di sassi, a una costruzione di pietra. Era la fine del viaggio? Era quello il Grembo della Madre? No, era solo un punto di sosta, un rifugio. Forse un tempo era stato un umyazu. Era silenzioso, adesso. Non racchiudeva nessuna storia. Rimasero due giorni e due notti nella casa tetra, a riposare, a dormire nei sacchi a pelo. Non c’era nulla da ardere per accendere un fuoco, avevano solo i loro fornelletti, e delle provviste non rimaneva che un po’ di pesce secco affumicato, che divisero in piccole porzioni e fecero bollire nella neve sciolta, preparando una zuppa.

«Verranno» dicevano gli altri. Sutty non chiese chi. Era così stanca che aveva la sensazione di poter restare per sempre nella casa di pietra, come uno degli abitanti delle casette di pietra bianche nelle città dei morti che aveva visto in Sudamerica, a riposare in pace. La gente di Sutty bruciava i propri morti. Lei aveva sempre temuto il fuoco. Era meglio quello, il silenzio gelido.

La terza mattina udì uno scampanellio, molto lontano, un lieve tintinnio di campanelle. «Vieni a vedere, Sutty» disse Kieri, e la convinse ad alzarsi e ad andare sulla soglia della casa di pietra a dare un’occhiata.

Da sud saliva gente, procedeva a zigzag tra i massi grigi enormi, e conduceva dei minule con le selle cariche di pacchi. C’erano delle aste, attaccate alle selle, aste su cui sventolavano lunghi nastri rossi e blu. Al bianco collo lanoso dei giovani animali che correvano accanto alle madri erano legati grappoli di campanelle.

Il giorno dopo, si unirono ai paesani e ai loro animali per raggiungere il villaggio estivo. Impiegarono tre giorni, ma il percorso fu piuttosto agevole. I paesani volevano che Sutty cavalcasse un minule, ma nessun altro li montava. Così anche lei andò a piedi. In un punto, dovettero girare attorno a un dirupo sotto un precipizio che strapiombava in verticale appena oltre la strettissima cornice di roccia praticabile. La cornice era piana, ma a tratti non più larga di un piede, e la neve che la copriva era molle e scivolosa a causa del disgelo estivo. I paesani sciolsero i minule, e invece di guidarli li seguirono. Spiegarono a Sutty che doveva mettere i piedi nelle orme degli animali. Lei seguì un minule con estrema attenzione, passo passo. Facendo ondeggiare disinvolto il posteriore lanoso, l’animale procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a guardare con espressione annoiata il precipizio nebbioso. Nessuno disse nulla finché non ebbero superato tutti il sentiero lungo il dirupo. Poi ci furono delle risate e delle battute scherzose, e parecchi montanari, rivolti al Silong, fecero il gesto della montagna e del cuore.

Giù nel villaggio, il corno della vetta non si vedeva; si vedevano solo il versante poderoso di un monte più vicino, e uno scorcio della grande parete che si stagliava contro il cielo a nordovest. Il villaggio sorgeva in un luogo verdeggiante, esposto a nord e a sud, un luogo che offriva buoni pascoli estivi, riparato, idillico. Vicino al fiume crescevano degli alberi: Odiedin li mostrò a Sutty. Erano alti come il suo mignolo. Giù a Okzat-Ozkat, quegli alberi erano gli arbusti che costeggiavano l’Ereha. Nei parchi di Dovza City, lei aveva passeggiato alla loro ombra.

C’era stato un decesso nel villaggio, un giovane che aveva trascurato un taglio al piede ed era morto di setticemia. Avevano conservato nella neve il corpo gelato, in attesa che i maz potessero venire a officiare il funerale. Come facevano a sapere che il gruppo di Odiedin stava arrivando? Come avevano fatto a prendere accordi? Sutty non capiva, ma ben presto lasciò perdere. Lì sulle montagne c’erano tante cose che non capiva. Si abbandonava all’attimo, come un bambino. "Ruzzola e gira, inerme come un bambino…" Chi le aveva detto quelle parole? Sutty si accontentava di camminare, di sedere al sole, di seguire le impronte di un animale. "Dove le mie guide mi conducono benevole, io vado, le seguo leggero…"

I due giovani maz raccontarono il funerale. Era quella l’espressione usata. Come tutti i riti, anche quello funebre era una narrazione. Per due giorni, Siez e Tobadan sedettero con il padre e la zia del defunto, con sua sorella, gli amici, una donna che era stata sua moglie per qualche tempo, con tutti quelli che volevano parlare di lui, e seppero così chi era il defunto, cos’aveva fatto. Poi i due maz narrarono di nuovo tutto quanto, in modo solenne e nel linguaggio rituale, accompagnati dai colpi sommessi del tamburello, parlando a turno accanto alla salma avvolta in un panno bianco sottile, ancora ghiacciato: una canzone di lode, una vita tradotta in parole, inclusa nell’interminabile narrazione.

Poi, con la sua splendida voce, Siez recitò la conclusione della storia di Penan Teran, una mitica coppia di eroi cari al popolo rangma. Penan e Teran erano uomini del Silong, giovani guerrieri che cavalcavano il vento del Nord, sellavano il vento delle montagne come un eberdin e lo cavalcavano per scendere sul campo di battaglia, a bandiere spiegate, e combattere contro l’antico nemico dei rangma, la gente del mare, i selvaggi delle pianure occidentali. Ma Teran fu ucciso in battaglia. E Penan condusse in salvo il suo popolo, poi sellò il vento del Sud, il vento del mare, e lo cavalcò fin sulle montagne, dove balzò dal vento e morì.

La gente ascoltò e pianse, e c’erano lacrime anche negli occhi di Sutty.

Poi Tobadan batté il tamburo come Sutty non aveva mai sentito battere, non colpi lenti e leggeri, ma un ritmo incalzante, trascinante, che incitò la gente a sollevare la salma e a portarla via in processione, allontanandosi rapidamente dal villaggio, sempre col tamburo che batteva.

«Dove lo seppelliranno?» chiese Sutty a Odiedin.

«Nel ventre dei geyma» rispose Odiedin. Indicò delle guglie di roccia lontane su uno dei vasti pendii che sovrastavano la valle. «Lo lasceranno là, nudo.»

Meglio che giacere in una casa di pietra, pensò Sutty. Molto meglio del fuoco.

«Così cavalcherà il vento» disse.

Odiedin la guardò e poco dopo annuì silenzioso.

Odiedin non parlava mai molto, e quello che diceva era spesso ironico. Non era un uomo mite, ma ormai Sutty si sentiva del tutto a proprio agio con lui, e lui con lei. Odiedin stava scrivendo sulle striscioline di carta rossa e blu, di cui sembrava avere una scorta inesauribile nello zaino: scriveva il nome del morto e dei suoi familiari, vide Sutty, perché le persone in lutto potessero portare a casa quei pezzetti di carta e conservarli nelle loro scatole della narrazione.

«Maz» disse Sutty. «Prima che i dovzani diventassero così potenti… prima che cominciassero a cambiare tutto, a usare macchine, a costruire le cose nelle fabbriche invece che a mano, a fare nuove leggi… tutte queste cose…» Odiedin annuì. «Hanno cominciato a farlo dopo l’arrivo della gente dell’Ekumene. Solo una vita fa, più o meno. Cos’erano i dovzani, prima?»

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