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Se significava chiedere qualcosa, gli akani non lo facevano. Nemmeno a livello invocativo, come capitava invece a lei. Sapeva che quando era sbigottita strillava: "Oh, Rama!", e quando era molto spaventata sussurrava: "Oh, ti prego, ti prego…". Quelle parole non significavano assolutamente nulla, però lei si rendeva conto che erano una specie di preghiera. Non aveva mai sentito pronunciare niente del genere da un akano. Gli akani potevano augurarsi del bene: "Un buon anno a te, e che i tuoi affari fioriscano", come potevano maledirsi a vicenda "Che i tuoi figli mangino sassi", aveva sentito mormorare da Diodi, l’uomo del carretto, mentre passava una divisa blu e marrone. Ma quelli erano auguri, non preghiere. La gente non chiedeva a Dio di aiutarla o di distruggere i nemici. Non chiedevano agli dei di fargli vincere la lotteria o di guarirgli il figlioletto malato. Non chiedevano alle nuvole di lasciar cadere la pioggia o di far crescere il grano. Auguravano, desideravano, speravano, ma non pregavano.

Se la preghiera era lode, allora forse pregavano. Un po’ alla volta, Sutty si era resa conto che la loro descrizione dei fenomeni naturali, la farmacopea del Fecondatore, le carte celesti, gli elenchi di minerali, erano specie di litanie di lode. Pronunciando i nomi, gioivano della complessità e della specificità, della ricchezza e della bellezza del mondo, erano partecipi della pienezza dell’essere. Descrivevano, nominavano, raccontavano tutto di tutto. Ma non pregavano, non chiedevano nulla.

Né sacrificavano nulla. Tranne il denaro.

Per ottenere denaro, bisognava dare denaro: quello era un principio saldo e universale. Prima di qualsiasi affare, seppellivano delle monete d’argento e di rame, o le gettavano nel fiume, o le davano ai mendicanti. Martellavano le monete d’oro trasformandole in sottilissime lamine traslucide con cui decoravano nicchie, colonne, perfino interi muri di edifici, oppure le trafilavano ricavandone fili d’oro con cui tessevano bellissimi scialli o sciarpe da regalare a Capodanno. Le monete d’oro e d’argento scarseggiavano, dato che l’Azienda, detestando un simile spreco, aveva adottato perlopiù la cartamoneta; così la gente bruciava le banconote come incenso, faceva barchette con le banconote e le metteva a galleggiare sul fiume, le tritava fini fini e le mangiava con l’insalata. Quell’usanza era decisamente SA, ma Sutty la trovava affascinante. Uccidere capre o il proprio primogenito per placare il soprannaturale le sembrava il peggior tipo di malvagità, ma in quel sacrificio di denaro coglieva un gesto ardimentoso da giocatore d’azzardo. Tanti presi, tanti spesi. A Capodanno, quando s’incontrava un amico o un conoscente, ognuno accendeva un biglietto da un ha e lo agitava come una piccola torcia, augurando all’altro salute e prosperità. Sutty lo vide fare perfino da dipendenti dell’Azienda. Si domandò se il Controllore l’avesse mai fatto.

Le persone più ingenue che incontrava alle narrazioni e ai corsi, e Diodi e altri amici che vedeva spesso per strada, credevano tutti nella lettura dei segni e nei prodigi alchemici e parlavano di diete che permettevano di vivere in eterno, di esercizi che avevano dato agli antichi eroi la forza di opporsi a interi eserciti. Perfino Iziezi approvava la lettura dei segni. Ma la maggior parte dei maz, i dotti, gli insegnanti, non vantavano alcun potere speciale. Vivevano decisamente e interamente nel mondo reale. Conoscevano la brama spirituale e il senso della sacralità, però per loro non esisteva nulla di più sacro del mondo, non cercavano un potere più grande della natura. Sutty ne era certa. «Niente miracoli!» disse al noter, esultante.

Codificò gli appunti, infilò cappotto e stivali, e s’incamminò nel vento maligno della primavera appena iniziata per andare al corso di esercizio fisico di maz Odiedin Manma. Dopo molte settimane, il Silong era visibile per la prima volta, non la parete imponente, solo la vetta, che spuntava come un corno argenteo dalle fosche nubi temporalesche.

Adesso andava con regolarità a esercitarsi assieme a Iziezi, e spesso si tratteneva oltre, per osservare Akidan e altri adolescenti e giovani che facevano il "due-uno", una disciplina atletica che si praticava a coppie, con finte e cadute spettacolari. Odiedin Manma, il narratore della strana storia dell’uomo che sognava di volare, era molto ammirato da quei giovani, ed erano stati alcuni di loro a farlo conoscere a Sutty, portandola da lui. Il maz insegnava un tipo di esercizio-meditazione austero e bellissimo. Aveva invitato Sutty a unirsi al gruppo.

Si trovavano in un vecchio magazzino vicino al fiume, un posto meno sicuro dell’umyazu trasformato in palestra dove lei si recava con Iziezi, ed eseguivano per davvero gli esercizi ginnici legittimi del manuale sanitario che servivano come copertura per quelli proibiti. Il magazzino era illuminato solo da feritoie sporche sotto i cornicioni. Nessuno parlava, se non sussurrando a voce bassissima. Non c’era nulla di magico e fumoso in Odiedin, ma Sutty trovava che quegli esercizi, i movimenti lenti e silenziosi nella penombra, fossero strani e ossessivi, a volte inquietanti; li sognava perfino.

Quella mattina, un uomo seduto accanto a lei la fissò mentre prendeva posto sulla stuoia. Il gruppo eseguiva la prima parte del rituale, ma l’uomo continuò a fissarla, ammiccando, gesticolando, sorridendole. Nessuno si comportava così. Seccata e imbarazzata, durante una posa da tenere a lungo, Sutty riuscì a lanciare un’occhiata a quell’individuo e si rese conto che era ebete.

Quando il gruppo iniziò una serie di movimenti che lei non conosceva ancora bene, osservò gli altri e cercò di imitarli come meglio poteva. I suoi errori e le sue omissioni turbarono il vicino, che cercò di mostrarle ripetutamente quando e come muoversi, mimando, con gesti esagerati. Quando gli altri si alzarono, Sutty rimase seduta, il che era sempre consentito, ma il povero ebete parve sconvolto. Gesticolò. "Su! Su!", la invitò muto, muovendo le labbra. E indicò verso l’alto. Infine, sussurrando: «Su… così… capito?» fece un passo nell’aria. Portò l’altro piede sulla scala invisibile, e poi salì un altro gradino nello stesso modo. Se ne stava in piedi scalzo a mezzo metro dal pavimento, e guardava Sutty dall’alto, sorridendole ansioso e invitandola con un gesto a raggiungerlo. Era in piedi a mezz’aria.

Odiedin, un cinquantenne agile e snello, con un pezzo di tessuto blu attorno al collo, gli si avvicinò. Tutti gli altri continuarono a eseguire il dondolio laborioso che ricordava l’ondeggiamento di una foresta di alghe. Odiedin mormorò: «Vieni giù, Uki». Allungò una mano, afferrò quella di Uki e gli fece scendere i due gradini inesistenti, gli batté con affetto sulla spalla e si allontanò. L’ebete si unì alla figurazione, oscillando e girando con impeccabile grazia e vigore. A quanto pareva, aveva dimenticato Sutty.

Al termine della seduta, Sutty non ebbe il coraggio di rivolgere a Odiedin alcuna domanda. Cosa doveva chiedergli? "Hai visto quello che ho visto io? E io l’ho visto davvero?" Sarebbe stato stupido. Non poteva essere successo, quindi lui senza dubbio si sarebbe limitato a rispondere alla sua domanda con una domanda.

O forse Sutty non gli chiese nulla perché temeva che il maz le rispondesse semplicemente: "Sì".

Se un mimo poteva trasformare l’aria in una scala, se un fachiro poteva arrampicarsi su una corda appesa all’aria, forse un povero ebete poteva trasformare l’aria in un gradino. Se la forza spirituale poteva muovere le montagne, forse poteva pure creare una scala. Stato di trance. Suggestione ipnotica o ipnagogica.

Sutty descrisse brevemente l’episodio negli appunti quotidiani, senza commenti. Mentre parlava al noter, si convinse che nella sala c’era davvero una specie di predellino che lei non aveva visto nella penombra, sì, un blocco di legno, forse una cassa, di colore nero. Certo che c’era qualcosa, là. Sutty fece una pausa, ma non aggiunse altro. Vedeva il blocco o la cassa, adesso. Ma non l’aveva visto, allora.

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