Литмир - Электронная Библиотека
A
A

Spesso, però, rivide nella mente quei due piedi nudi, callosi, muscolosi, che salivano la montagna assente. Si chiese cosa si provasse a camminare sull’aria, che sensazione avvertissero le piante dei piedi. Un senso di fresco? Di elasticità?

In seguito, prestò più attenzione ai vecchi testi e alle vecchie storie che parlavano di camminare sul vento, cavalcare le nuvole, viaggiare tra le stelle, distruggere i nemici lontani con fulmini e saette. Simili imprese erano sempre attribuite a eroi e maz saggi vissuti in luoghi remoti tanto tempo prima, anche se molte di quelle imprese erano ormai comuni e abituali grazie alle moderne tecnologie. Sutty riteneva comunque che fossero mitiche, metaforiche, da non prendere alla lettera. Non giunse ad alcuna spiegazione.

Ma il suo atteggiamento era cambiato. Adesso sapeva di essersi ancora lasciata sfuggire il nocciolo della questione… un equivoco grossolano e assoluto di cui non si era accorta.

Una narrazione non era una spiegazione.

"Non riescono a vedere la foresta perché si perdono a osservare gli alberi, non colgono l’insieme perché badano ai particolari, i pedanti, i sapientoni" le ringhiò nella mente zio Hurree. "Poesia, ragazza, poesia. Leggi il Mahabharata. È tutto là dentro."

«Maz Elyed» chiese Sutty, «cos’è che fai?»

«Racconto, yoz Sutty.»

«Sì. Ma le storie, tutte le cose che racconti, cosa fanno?»

«Raccontano il mondo.»

«Perché, maz?»

«È quello che fa la gente, yoz. Il motivo per cui siamo qui.»

Maz Elyed, come molti maz, parlava a bassa voce e in modo piuttosto incerto, interrompendosi, ricominciando quando si aveva l’impressione che avesse terminato. Il silenzio faceva parte di tutto ciò che diceva.

Era piccola, zoppa, e molto rugosa. La sua famiglia possedeva un negozietto di ferramenta nel quartiere più povero della cittadina, un quartiere dove molte case non erano fatte di pietra e di legno, ma erano tende o iurte di feltro e tela rattoppate con pezzi di plastica, erette su piattaforme di argilla battuta. I nipoti e i pronipoti abbondavano nel negozio di ferramenta. Un bisnipote piccolissimo girellava traballando nella bottega, e sembrava che lo scopo della sua vita fosse mangiare viti e rondelle. Una vecchia fotografia 2D di Elyed con la compagna Oni era appesa alla parete dietro il banco: Oni Elyed alta e con lo sguardo sognante, Elyed Oni piccina, vispa, bellissima. Trent’anni prima, erano state arrestate per devianza sessuale e per avere insegnato ideologia marcia e corrotta. Le avevano mandate in un campo di rieducazione sulla costa occidentale. Oni era morta là. Elyed era tornata dopo dieci anni, zoppa, senza denti: persi per le percosse o per lo scorbuto, lei non l’aveva mai rivelato. Non parlava di sé, o della compagna, o della vecchiaia, o delle proprie faccende. I suoi giorni trascorrevano in una continuità rituale ininterrotta che comprendeva tutte le necessità e le funzioni corporali, preparare e consumare i pasti, dormire, insegnare, ma soprattutto leggere e narrare, una sommessa e incessante ripetizione dei testi che aveva appreso durante tutta la vita.

All’inizio, a Sutty era parso che Elyed fosse una creatura misteriosa, che non aveva nulla di umano, indifferente e inaccessibile come una nuvola, una santa domestica che viveva interamente all’interno del sistema rituale, una specie di automa che recitava senza emozione, senza personalità. Aveva avuto paura di lei. Temeva che quella donna che incarnava appieno il sistema, che lo viveva in modo totale, la costringesse ad ammettere che si trattava di un sistema isterico, ossessivo, assolutistico, mentre lei, detestando e temendo tutte quelle caratteristiche, si augurava che non fosse così. Ma ascoltando le narrazioni di Elyed, Sutty percepiva una mente disciplinata, razionale, anche se parlava di cose irragionevoli.

Elyed usava spesso quella parola, "irragionevole", in senso letterale: ciò che non può essere compreso dalla ragione. Una volta, quando Sutty stava cercando di trovare un filo logico tra svariate narrazioni, Elyed disse: «Quello che facciamo è irragionevole, yoz».

«Ma una ragione c’è.»

«Probabilmente.»

«Quello che non capisco è lo schema. La collocazione, l’importanza delle cose nello schema. Ieri stavi raccontando la storia di Iaman e Deberren, ma non l’hai finita, e oggi hai letto la descrizione delle foglie degli alberi del boschetto della Montagna d’Oro. Non capisco che collegamento ci sia tra le due cose. O certi argomenti sono adatti a certi giorni? O le mie domande sono semplicemente stupide?»

«No» disse Elyed, e rise, una risatina sdentata. «Mi stanco a ricordare. Così leggo. Non ha importanza. Sono tutte foglie dell’albero»

«Allora… qualunque cosa… qualunque cosa si trovi nei libri è ugualmente importante?»

Elyed rifletté. «No» disse. «Sì.» Trasse un respiro tremulo. Si stancava presto quando non poteva affidarsi alla consuetudine degli atti e del linguaggio rituali, ma non congedava mai Sutty, non eludeva mai le sue domande. «È tutto quello che abbiamo. Capisci? È così che abbiamo il mondo. Senza la narrazione, non abbiamo nulla. Il momento passa come l’acqua del fiume. Noi cadremmo e ruzzoleremmo e saremmo inermi se cercassimo di vivere nel momento. Saremmo come un bambino. Un bambino può farlo, ma noi saremmo travolti. La nostra mente ha bisogno di raccontare, ha bisogno della narrazione. Per trattenere. Il passato è passato, e nel futuro non c’è nulla da afferrare. Il futuro non è ancora nulla. Nessuno può vivere nel futuro, no? Quindi, quello che abbiamo sono le parole che dicono cos’è successo e cosa succede. Quello che è stato e quello che è.»

«Memoria?» fece Sutty. «Storia?»

Elyed annuì, dubbiosa, non soddisfatta di quei termini. Rimase seduta a riflettere un po’, e infine disse: «Noi non siamo fuori dal mondo, yoz. Lo sai? Noi siamo il mondo. Siamo la sua lingua. Così noi viviamo e il mondo vive. Capisci? Se non diciamo le parole, cosa c’è nel nostro mondo?».

Stava tremando, piccoli spasmi delle mani e della bocca che cercava di nascondere. Sutty la ringraziò col gesto della montagna e del cuore, si scusò per averla affaticata con la conversazione. Elyed la tranquillizzò con la tipica risatina tutta gengive scure. «Oh, yoz, io tiro avanti grazie alle parole. Proprio come il mondo» disse.

Sutty si allontanò, pensierosa. Tutta quella insistenza sul linguaggio. Si ritornava sempre alle parole. Come i greci col loro Logos, il Verbo Ebraico che era Dio. Ma in questo caso si trattava di parole. Non del Logos, del Verbo, ma di parole. Non una, ma molte, moltissime… Nessuno creava il mondo, governava il mondo, diceva al mondo di esistere. Il mondo esisteva. E gli esseri umani ne facevano un mondo umano raccontandolo? Raccontando cosa esisteva al mondo e cosa accadeva? Qualsiasi cosa, ogni cosa… storie di eroi, carte celesti, canzoni d’amore, elenchi delle forme delle foglie… Per un attimo, Sutty pensò di aver capito.

Andò con quella comprensione parziale da maz Ottiar Uming, un’interlocutrice meno ostica di Elyed, perché voleva provare a tradurre in parole il concetto. Ma Ottiar era impegnata in un canto rituale, così Sutty si rivolse a Uming, e, chissà perché, il suo ragionamento si fece tortuoso e pedante. Non riuscì a esprimere quanto aveva intuito.

Mentre lei e il maz si sforzavano di capirsi, Uming Ottiar manifestò dell’acredine, un tipo di reazione che Sutty non aveva mai notato in quegli insegnanti pacati. Malgrado la difficoltà a parlare, Uming era un abile oratore, e iniziò abbastanza tranquillo: «Gli animali non hanno linguaggio. Hanno la loro natura. Capisci? Loro conoscono la via, sanno dove andare e in che modo, seguendo la loro natura. Ma noi siamo animali senza natura. Eh? Ammali senza natura! Questo è strano! Noi siamo molto strani! Dobbiamo parlare di come fare e cosa fare, pensarci, studiare, imparare. Capito? Siamo nati per essere ragionevoli, quindi siamo nati ignoranti. Chiaro? Se nessuno ci insegna le parole, i pensieri, rimaniamo ignoranti. Se nessuno mostra a un bambino piccolo, di due o tre anni, in che modo cercare la via, i segni lungo il sentiero, i punti di riferimento, il bambino si smarrisce sulla montagna, no? E di notte muore, di freddo. Così…» Uming dondolò un po’ il corpo.

26
{"b":"120641","o":1}