«Chiudetelo a chiave» ringhiò Galen, «e non lasciatelo più uscire fino a quando io personalmente non ve lo ordinerò.» Girò su se stesso e rientrò nello studio.
Due contro due fu il pensiero di Miles mentre le guardie lo facevano scendere al livello inferiore. O per lo meno, due contro uno e mezzo. Non avrò mai più una possibilità come questa e ormai il margine di tempo si è ridotto.
Quando la porta della cella si aprì, Miles vide Galeni addormentato sulla panca, nell’atteggiamento disperato, cupo e rinunciatario dell’uomo che sfugge al dolore nell’unico modo che gli resta. Aveva passato quasi tutta la notte precedente a camminare su e giù per la cella, in silenzio, in preda ad un’agitazione quasi frenetica… e il sonno che allora lo aveva eluso lo aveva reclamato adesso. Stupendo. Adesso, proprio nel momento in cui Miles aveva bisogno che fosse in piedi e pronto a scattare come una molla.
Ma doveva provare lo stesso. «Galeni!» gridò. «Adesso, Galeni! Forza!»
E al tempo stesso si tuffò in avanti, per colpire la mano che teneva lo storditore. Sentì una delle sue dita spezzarsi, ma riuscì ugualmente a far cadere lo storditore e a spingerlo sul pavimento verso Galeni, che si era alzato dalla panca e veniva verso di lui con passo incerto e pesante. Nonostante fosse ancora mezzo addormentato, il capitano reagì in fretta e con precisione, gettandosi verso lo storditore, afferrandolo e rotolando su se stesso fuori dalla linea di tiro.
La guardia che teneva Miles gli mise un braccio attorno al collo e lo sollevò da terra, voltandolo verso l’altra guardia. Il piccolo rettangolo grigio della bocca dell’arma era così vicino alla sua faccia che Miles dovette storcere gli occhi per metterlo a fuoco. Quando il dito della guardia komarrana si strinse sul grilletto, la bocca dello storditore esplose in mille frammenti e la testa di Miles parve esplodere in un’ondata di dolore e di luci colorate.
CAPITOLO UNDICESIMO
Si svegliò in un letto di ospedale, ambiente sgradevole, ma purtroppo familiare. Fuori dalla finestra, in lontananza, le torri di Vorbarr Sultana, la capitale di Barrayar, emanavano uno strano scintillio verde nell’oscurità. Quindi si trovava al Mil-Imp allora, l’ospedale Militare Imperiale, in una stanza disadorna nello stesso stile severo di quelle che aveva conosciuto da bambino, quando non faceva che entrare e uscire dai laboratori clinici e dalla chirurgia per le sue dolorose terapie, tanto che il Mil-Imp era diventato per lui quasi una seconda casa.
Entrò un medico sulla sessantina, con i capelli grigi, il volto pallido solcato da rughe, il corpo appesantito dall’età. Sulla targhetta c’era scritto Dr. Galen e mentre camminava, nella tasca del camice le siringhe ipodermiche sbattevano tra loro.
«Ah, sei sveglio» esclamò contento il dottore. «Questa volta non ci scapperai via di nuovo, vero?»
«Scappare?» Era collegato a tubicini, fleboclisi e fili di sensori, gli sembrava difficile poter andare da qualche parte.
«Catatonia, il mondo delle nuvole, dei sogni. Per farla breve, pazzia. D’altra parte, immagino che tu non possa che andare là, no? È il male di famiglia, ce l’avete nel sangue.»
Nelle orecchie, Miles udì i suoi globuli rossi che si sussurravano l’un l’altro migliaia di segreti militari, piroettando ubriachi in una danza campestre con le molecole di penta-rapido che sventolavano verso di lui i gruppi di ossidrili come sottovesti di pizzo. Sbatté le palpebre e quell’immagine svanì.
Galen frugò nella tasca con una mano e il suo viso cambiò espressione. «Ahi!» strillò, ritraendo di scatto la mano e scrollando via una siringa. «Questo stupido pidocchietto ha punto me» esclamò succhiandosi il pollice. Guardò il pavimento dove la giovane siringa ipodermica si aggirava incerta e confusa sulle sue zampette di metallo e la schiacciò sotto un piede. Con un flebile squittio, la siringa morì.
«Questi episodi di instabilità mentale non sono insoliti in un criocadavere rianimato, naturalmente. Lo supererai» lo rassicurò il dottor Galen.
«Ero morto?»
«Ammazzato, sulla Terra. Sei rimasto un anno in animazione sospesa.»
Per quanto fosse strano, Miles ricordava perfettamente quella parte: sdraiato in una bara di vetro, come la principessa delle favole vittima di un crudele incantesimo, mentre figure spettrali scivolavano silenziose al di là dei pannelli congelati.
«E mi avete resuscitato?»
«Oh, no: sei andato a male… il peggior caso di ustioni da gelo mai visto.»
«Oh» Miles tacque, sconcertato e poi aggiunse con voce flebile, «Allora sono ancora morto? Posso avere i cavalli, al mio funerale, come il Nonno?»
«No, no, no, naturalmente no» starnazzò il dottor Galen sollecito come una chioccia, «non puoi morire, i tuoi genitori non lo permetterebbero mai. Abbiamo trapiantato il tuo cervello in un corpo di ricambio. Fortunatamente ce n’era uno a portata di mano. Aveva già un proprietario, ma non era quasi mai stato usato. Congratulazioni, sei di nuovo vergine. Sono stato in gamba ad avere già pronto il tuo clone, vero?»
«Il mio clo… mio fratello? Mark?» Miles balzò a sedere di colpo, staccando tutti i tubicini, tirò fuori il vassoio dal comodino e girandolo, si guardò in quella superficie di metallo lucido: una linea di grossi punti di sutura neri gli correva lungo la fronte. Si guardò le mani, voltandole inorridito. «Mio Dio, sono dentro un cadavere.»
«Se io sono qui, cosa ne avete fatto di Mark?» chiese a Galen. «Dove avete messo il cervello che stava in questa testa?»
Galen indicò accanto al letto.
Sul comodino c’era un grosso vaso di vetro, dentro il quale, come un fungo attaccato al gambo, galleggiava un cervello gommoso, morto e maligno, immerso in un liquido di conservazione denso e verdastro.
«No!» gridò Miles. «No, no, no!» Scese a fatica dal letto e afferrò il vaso; il liquido traboccò e gli bagnò le mani. Corse in corridoio, a piedi nudi, con le falde del camice da ospedale che svolazzavano dietro di lui. Ci dovevano essere dei corpi di ricambio, lì, quello era il Mil-Imp. E di colpo gli venne in mente dove ne aveva lasciato uno.
Si precipitò dentro una porta e si ritrovò nella sua navetta da combattimento che orbitava attorno a Dagoola IV. Il portello era spalancato e scardinato e fuori ribollivano nuvole nere striate da lampi gialli. La navetta sobbalzava e uomini e donne, feriti e coperti di fango, con uniformi da combattimento dendarii bruciacchiate e strappate, scivolavano, urlavano e imprecavano. Trascinandosi con passo incerto, sempre tenendo stretto il vaso, Miles uscì dal portello.
Per un po’ galleggiò e per un po’ cadde. Un donna precipitò accanto a lui, urlando e agitando le mani, ma Miles non poteva afferrarla, non poteva mollare il vaso. La donna si schiantò al suolo.
Miles atterrò in piedi, con le ginocchia che tremavano e per poco non fece cadere il vaso. Il fango era spesso, nero e gli arrivava alle ginocchia.
La testa e il corpo del tenente Murka giacevano dove lui li aveva lasciati sul campo di battaglia. Con mani fredde e tremanti, Miles estrasse il cervello dal vaso e cercò di infilare il midollo allungato nel buco aperto nel collo dal fucile al plasma, ma questo rifiutava caparbiamente di entrare.
«Tanto non ha lo stesso una faccia» commentò in tono critico la testa del tenente Murka, pochi passi più in là. «Sarà brutto come il peccato, se andrà in giro con quell’affare che sporge dal mio corpo.»
«Sta zitto, tu non hai diritto di voto, sei morto» sbraitò Miles. Il cervello viscido gli scivolò tra le dita e finì nel fango. Miles lo raccattò e cercò goffamente di togliere quella mota nera strofinandola con la manica dell’uniforme da ammiraglio dendarii, ma il tessuto ruvido graffiò le circonvoluzioni del cervello di Mark, danneggiandolo. Senza farsi vedere, rimise a posto il tessuto cerebrale, sperando che nessuno se ne accorgesse e tentò di nuovo di infilare il midollo allungato nel collo.