«E cosa dice?» chiese Galeni sollevando le sopracciglia, divertito.
«Miles, dice, cosa ne hai fatto di tuo fratello?»
«Il clone non è suo fratello!» esclamò Galeni.
«Al contrario, per la legge betana, il clone è proprio mio fratello.»
«È una follia. Sua madre non può pretendere che lei protegga quella creatura.»
«Oh, ma certo che può» sospirò cupo Miles, mentre la fitta di panico inespresso si trasformava in un peso sullo stomaco. Complicato, troppo complicato…
«E questa è la donna che, a suo dire, sta dietro all’uomo che è dietro l’Impero di Barrayar? Non lo capisco. Il conte Vorkosigan è il più pragmatico dei politici; guardi solo lo schema di integrazione komarrana.»
«Già, guardiamolo» replicò Miles cordiale.
Galeni gli scoccò un’occhiata sospettosa. «Gli individui prima dei principi, eh?» commentò poi.
«Appunto.»
Il capitano si accasciò sulla panca. Dopo un po’, torse un angolo della bocca nella parodia di un sorriso, mormorando: «Mio padre è sempre stato un uomo di grandi… principi.»
CAPITOLO DECIMO
Ad ogni minuto che passava le probabilità di essere salvati si facevano sempre più esigue. Arrivò un altro pasto che aveva l’aspetto di una colazione: dunque, se ci si poteva fidare di quel genere di orologio, quello era il terzo giorno di prigionia di Miles. A quanto pareva il clone non aveva ancora commesso errori grossolani che rivelassero la sua vera natura a Ivan o Elli. E se era in grado di ingannare Ivan e Elli, poteva ingannare chiunque. Miles rabbrividì.
Trasse un profondo respiro, saltò giù dalla panca ed eseguì una serie di esercizi di ginnastica per cercare di eliminare i residui della droga dal cervello e dal corpo. Galeni, sprofondato quel mattino in un misto di umor nero, postumi da droga e rabbia impotente, se ne restò sdraiato ad osservarlo senza fare commenti.
Sudato, intontito e con il respiro affannoso, Miles si mise a passeggiare per la stanza per raffreddarsi. Quel posto stava cominciando a puzzare e i suoi esercizi non avevano migliorato le cose. Senza molte speranze, andò nella piccola stanza da bagno e provò lo scherzetto dell’otturo-lo-scarico-con-la-maglietta. Come aveva sospettato, lo stesso sistema di sensori che apriva l’acqua quando passava una mano sotto il rubinetto, lo spegneva prima che traboccasse. Anche il water funzionava nello stesso modo. E anche se, per miracolo, fosse riuscito ad indurre i rapitori ad aprire la porta, Galeni aveva già dimostrato quanto fossero scarse le possibilità di aprirsi la strada lottando contro gli storditori.
No: il suo unico punto di contatto con il nemico stava nelle informazioni che speravano di estorcergli. In fondo, era quella l’unica ragione per cui era ancora vivo. Era una leva potenzialmente molto utile: sabotaggio informativo. Se il clone non aveva intenzione di fare da solo degli errori, forse era il caso di dargli una spintarella. Ma come poteva riuscirci, pieno fino al collo di penta-rapido? Avrebbe potuto mettersi in piedi al centro della cella e fare false confidenze alla lampada, come faceva Galeni, ma non poteva certo aspettarsi di essere preso sul serio.
Stava seduto sulla panca, intento a fissarsi i piedi congelati (le calze appiccicose di sudore le aveva messe ad asciugare) quando la porta si aprì; entrarono due guardie con gli storditori. Una tenne sotto mira Galeni, che rispose con uno sguardo feroce, senza muoversi. Il dito della guardia si strinse sul grilletto… nessuna esitazione, quel mattino Galeni non gli serviva cosciente. L’altra fece cenno a Miles di uscire. Se il capitano Galeni veniva messo fuori combattimento all’istante, non aveva senso che Miles cercasse di contrastare le guardie da solo. Con un sospiro, obbedì, uscendo in corridoio.
E si ritrovò a trattenere il fiato, stupefatto. Là in piedi c’era il clone, che lo divorava con gli occhi.
L’alter-ego di Miles indossava la divisa da ammiraglio dendarii, che gli andava alla perfezione, compresi gli stivali da combattimento.
Ansimando, il clone ordinò alle guardie di scortare Miles nello studio. Questa volta lo legarono stretto ad una sedia al centro della stanza. Particolare interessante, Galen non c’era.
«Aspettate fuori dalla porta» disse il clone alle guardie. Queste si scambiarono un’occhiata, scrollarono le spalle e obbedirono, portandosi dietro un paio di sedie imbottite, per stare comodi.
Il silenzio, quando la porta si chiuse, fu palpabile e profondo. Il duplicato girò lentamente intorno alla sedia di Miles, tenendosi alla distanza di sicurezza, come se Miles potesse colpirlo di sorpresa. Poi gli si mise di fronte, a un buon metro e mezzo, appoggiando un fianco sulla scrivania, con una gamba che dondolava. Miles riconobbe quella posa: era la sua e d’ora in avanti non sarebbe più riuscito ad assumerla senza esserne dolorosamente conscio… un altro pezzettino di sé che il clone gli aveva rubato. Uno dei tanti pezzettini. Di colpo si sentì violato, invaso, calpestato. E spaventato.
«Come, ehm…» cominciò Miles e poi fu costretto ad interrompersi per schiarirsi la gola secca, «come sei riuscito a svignartela dall’ambasciata?»
«Ho appena trascorso la mattinata a svolgere i doveri dell’ammiraglio Naismith» gli disse il clone… con una certa impertinenza, così parve a Miles. «La tua guardia del corpo ha pensato di riconsegnarmi alla sicurezza dell’ambasciata barrayarana. I barrayarani crederanno che la mia guardia komarrana sia un dendarii. E io mi sono ritagliato una preziosissima fetta di tempo tutto per me. Bravo, vero?»
«Rischioso» commentò Miles. «Quello che speri di guadagnare vale il rischio? Il penta-rapido non funziona a dovere con me, lo sai.» E in effetti Miles notò che la siringa non si vedeva da nessuna parte.
«Non ha importanza» disse il clone, accantonando la cosa con un gesto brusco, un altro pezzetto di Miles… twang. «Non mi interessa se menti o dici la verità, voglio solo sentirti parlare, vederti, una volta soltanto. Tu, tu…» il clone abbassò la voce fino a ridurla ad un sussurro… twang, «quanto ti odio, ormai.»
Miles si schiarì di nuovo la gola. «Potrei farti notare, che in realtà, ci siamo incontrati per la prima volta tre notti fa. Qualunque cosa ti sia stata fatta, non sono stato io a fartela.»
«Tu» ribatté il clone, «mi rovini la vita per il solo fatto di esistere. Mi urta che tu respiri.» Si mise una mano sul petto. «Ma di questo ci occuperemo molto presto. Però Galen mi aveva promesso che avrei potuto parlarti, prima.» Scese dalla scrivania e cominciò a passeggiare: Miles arricciò le dita dei piedi. «Me lo aveva promesso.»
«A proposito, dov’è Ser Galen, questa mattina?» chiese Miles in tono pacato.
«Fuori.» Il clone gli rivolse una smorfia acida. «Si è preso un po’ di tempo libero.»
Miles corrugò la fronte. «Allora questa è una conversazione non autorizzata?»
«Me lo aveva promesso, ma poi se l’è rimangiato, senza dirmi la ragione.»
«Ah… uhm. Ieri, vero?»
«Sì.» Il clone interruppe il suo andirivieni e fissò Miles socchiudendo gli occhi. «Perché?»
«Credo che sia stato qualcosa che ho detto, mentre stavo pensando ad alta voce» rispose Miles. «Temo di aver capito qualcosa di troppo su questo complotto. Qualcosa di cui nemmeno tu dovresti essere a conoscenza. Aveva paura che lo rivelassi sotto l’effetto del penta-rapido. Per me andava benissimo: meno informazioni riuscite ad estorcermi, più è probabile che tu commetta un errore.» Miles attese, senza quasi osare respirare, per vedere se l’altro abboccava all’amo, pervaso da un guizzo della stessa sovreccitazione nervosa che lo prendeva prima di un combattimento.
«Abbocco» concesse il clone, con un luccichio ironico nello sguardo. «Sputa.»
A diciassette anni, l’età di questo clone, lui… inventava la Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii ricordò Miles, quindi forse era meglio non sottovalutare l’altro. Cosa si provava ad essere un clone? Sotto la pelle, a che profondità si fermava la somiglianza? «Tu sei l’agnello sacrificale» sbottò senza mezzi termini. «Non ha nessuna intenzione di farti arrivare vivo all’Impero di Barrayar.»