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Il clone si girò di scatto e ringhiò: «Oh, sapevo come stavano le cose. Ma una volta, una, una sola, un clone del Gruppo Jackson ribalta le cose: invece di essere tu ad impadronirti della mia vita come un cannibale, sarò io ad avere la tua.»

«E allora dove sarà la tua vita?» chiese disperato Miles. «Sepolta in un’imitazione di Miles… e che ne sarà di Mark? Sei sicuro che in quella tomba ci sarò solo io?»

Il clone trasalì. «Quando sarò imperatore di Barrayar» disse a denti stretti, «nessuno riuscirà ad avermi. Il potere è sicurezza.»

«Lascia che ti dia un suggerimento» disse Miles. «Non esiste alcuna sicurezza, solo differenti stati di rischio. E di fallimento.» Doveva proprio arrivare a questa età per farsi tradire dalla sua solitudine di figlio unico? Dietro quegli occhi grigi, fin troppo famigliari, che lo fissavano feroci, c’era qualcuno? Quale laccio avrebbe potuto imprigionarlo? Gli inizi, era chiaro che il clone conosceva gli inizi, ma mancava di esperienza nei finali…

«Io ho sempre saputo» proseguì allora a voce tanto bassa che il clone dovette chinarsi in avanti per sentirlo, «per quale ragione i miei genitori non hanno avuto un altro figlio, a parte il danno causato da quel gas… di figli avrebbero potuto averne quanti ne volevano, con la tecnologia esistente sulla Colonia Beta. Mio padre ha sempre sostenuto che era perché non osava lasciare Barrayar, però mia madre avrebbe potuto prendere i suoi campioni genetici e andare da sola.»

«La ragione ero io, queste deformità. Se fosse esistito un figlio sano, avrebbero dovuto sostenere orribili pressioni sociali perché mi diseredassero mettendo lui al mio posto come erede. Credi forse che stia esagerando l’orrore che esiste su Barrayar nei confronti delle mutazioni genetiche? Il mio stesso nonno ha provato a dare un colpo di spugna alla cosa cercando di soffocarmi in culla, quando ero un neonato, dopo che non era riuscito ad imporsi per l’aborto. Il sergente Bothari (ho sempre avuto una guardia del corpo), che era alto due metri, non osò puntare un’arma contro il Grande Generale. Così si limitò a sollevarlo da terra, e a farlo penzolare a testa in giù, molto contrito ed educato, dal balcone del terzo piano, fino a quando il Generale Piotr non gli chiese, con altrettanta cortesia, di rimetterlo giù. Dopo di allora, giunsero ad un accordo. Questa storia me l’ha raccontata mio nonno, molto più tardi… il sergente era un tipo taciturno.

«Quando crebbi, il nonno mi insegnò ad andare a cavallo e mi diede quel pugnale che hai nascosto sotto la camicia. E mi ha lasciato metà delle sue terre, la gran parte delle quali, di notte, sono ancora fosforescenti a causa delle bombe nucleari dei cetagandani. Ed è rimasto al mio fianco in centinaia di tormentati e difficili eventi mondani barrayarani, impedendomi di fuggire, finché sono stato costretto ad imparare a tollerarli e a comportarmi come si conveniva, o morire. Più di una volta ho preso in considerazione la morte.

«I miei genitori, invece, erano così gentili e attenti… non hanno mai cercato di influenzarmi e questo è servito di più che mille urla. Mi proteggevano anche quando mi lasciavano rischiare le ossa in tutti gli sport, nella carriera militare… perché mi avevano permesso di cancellare tutti i miei fratelli ancor prima che nascessero. Perché non pensassi, neppure per un secondo, che non ero abbastanza bravo per dare loro delle soddisfazioni…» si interruppe di colpo e poi aggiunse: «Forse sei fortunato a non avere una famiglia, perché, in fondo, non fanno che farti impazzire.»

E come farò a salvare questo fratello che non ho mai saputo di avere? Per non parlare di sopravvivere, fuggire, mandare a monte il complotto komarrano, salvare il capitano Galeni da suo padre, sventare l’assassinio di mio padre e dell’imperatore e impedire che i dendarii vengano passati al tritacarne…

No, se solo riuscirò a salvare mio fratello, il resto seguirà. Ho visto giusto, questo è il momento di spingere, di lottare, ancor prima che si estragga un’arma. Spezza il primo anello e tutta la catena si disfa.

«Io so esattamente chi sono» disse il clone. «Non farai di me uno sciocco morto.»

«Tu sei ciò che fai. Scegli ancora e cambia.»

Il clone esitò, e per la prima volta, incontrò direttamente lo sguardo di Miles. «Che garanzia potresti darmi, di cui mi potrei fidare?»

«La mia parola di Vorkosigan?»

«Bah!»

Miles considerò seriamente il problema dal punto di vista del clone, di Mark. «Tutta la tua vita si è sempre incentrata sul tradimento, per un verso o per l’altro. È naturale, visto che non hai nessuna esperienza di lealtà mai tradita, che tu non sappia giudicare con fiducia. E se fossi tu a dirmi di quali garanzie ti fideresti?»

Il clone aprì la bocca, la richiuse e restò in silenzio arrossendo un po’.

Miles si lasciò quasi sfuggire un sorriso. «Adesso lo vedi il bivio, eh?» disse piano. «La pecca nella logica? Chi parte dal presupposto che tutto è bugia, sbaglia almeno quanto chi crede che tutto sia vero. Se non ci sono garanzie che ti soddisfanno, forse il problema non è nella garanzia, ma in te. E tu sei il solo che possa farci qualcosa.»

«Cosa posso fare?» mormorò il clone, mentre un dubbio angoscioso gli balenava per un attimo nello sguardo.

«Fai una prova» sussurrò Miles.

Il clone era immobile. Miles dilatò le narici: era vicino, era così vicino… l’aveva quasi…

La porta si spalancò con violenza e Galen, furibondo e scuro in volto, entrò a precipizio seguito dalle due guardie sorprese.

«Maledizione, il tempo…!» sibilò il clone, sollevando il mento e raddrizzando la schiena con aria colpevole.

Maledizione al tempismo! gridò Miles dentro di sé. Se avesse avuto ancora un paio di minuti…

«Cosa diavolo credi di fare?» domandò Galen, con voce stridula di rabbia.

«Di migliorare le mie probabilità di sopravvivere su Barrayar per più di cinque minuti, spero» rispose gelido il clone. «Anche per i tuoi scopi hai bisogno che resti in vita per un certo periodo, no?»

«Ti avevo detto che era pericoloso, troppo maledettamente pericoloso!» Galen stava quasi urlando. «È una vita che combatto i Vorkosigan: sono i più subdoli propagandisti che mai abbiano ammantato la cupidigia personale con lo pseudopatriottismo. E anche questo è uscito dallo stesso stampo. Le sue menzogne ti confonderanno, ti intrappoleranno… è un subdolo piccolo bastardo, che non perde mai di vista il suo scopo.»

«Ma il genere di bugie che ha scelto è stato molto interessante.» Il clone passeggiava nervoso, tirando calci al tappeto, con un’espressione che era a metà tra la sfida e le scuse. «Tu mi hai fatto studiare come si muove, come parla, come scrive, ma non ho mai capito fino in fondo come pensa.»

«E adesso?» chiese Galen con voce pericolosamente dolce.

Il clone scrollò le spalle. «È un pazzo. Penso che creda veramente alla sua propaganda.»

«La domanda è: tu ci credi?»

Tu ci credi, vero? pensò Miles disperato.

«Certo che no.» Il clone sbuffò e sollevò il mento. Twang.

Galen fece un cenno del capo in direzione di Miles, richiamando le guardie con un’occhiata. «Riportatelo in cella.» E rimase a guardare diffidente mentre i due lo slegavano e lo trascinavano via. Miles vide il clone, dietro le spalle di Galen, che fissava il pavimento, continuando a strisciare uno stivale sul tappeto.

«Tu ti chiami Mark!» gli gridò Miles prima che la porta si chiudesse. «Mark!»

Galen digrignò i denti e lo colpì, un pugno istintivo, non scientifico, diretto. Tenuto fermo dalle due guardie, Miles non poté schivarlo, ma riuscì a girare la testa quel tanto che bastava perché Galen non gli frantumasse la mascella e per sua fortuna Galen, riguadagnata una parvenza di controllo, scosse la mano dolorante e non lo colpì ancora.

«Quello era per me o per lui?» si informò dolcemente Miles, mentre il dolore si estendeva su tutto il volto.

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