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Alla fine, la stanchezza lo sopraffece e si addormentò sulla scomoda panca.

Dormì male, emergendo di tanto in tanto da sogni sgradevoli, solo per ritrovarsi in una realtà ancor più sgradevole su quella panca fredda, e con i muscoli intorpiditi.

Galeni sdraiato davanti al lui che si rigirava alla ricerca di una posizione confortevole, con gli occhi che lampeggiavano a tratti da sotto le ciglia, senza rivelare se fosse sveglio o stesse sonnecchiando… per poi sprofondare ancora nel mondo dei sogni.

Perse completamente la nozione del tempo, ma quando si svegliò e si mise a sedere con i muscoli indolenziti, si rese conto che doveva aver dormito parecchio. Andò nella minuscola stanza da bagno, si lavò il viso sul quale era cominciata a spuntare la barba, bevve un po’ d’acqua e a quel punto il suo cervello aveva ripreso a lavorare a pieno ritmo, ed era quindi impensabile rimettersi a dormire. Gli sarebbe piaciuto molto avere il suo gatto-coperta.

La serratura della porta ticchettò. Galeni si scosse dal suo sonno apparente e scattò a sedere, teneva i piedi ben piantati a terra e il volto imperscrutabile. Ma questa volta era il pranzo… o la colazione, a giudicare dal contenuto del vassoio: uova strapazzate tiepide, pane dolce, un meraviglioso caffè in due bicchieri di carta con due cucchiaini. La colazione fu portata da uno dei due giovanotti che Miles aveva visto la sera prima; l’altro rimase sulla porta, con lo storditore pronto. L’uomo appoggiò il vassoio sul bordo della panca e si affrettò ad uscire.

Miles osservò il cibo con circospezione, ma Galeni prese la sua parte e la mangiò senza esitazione. Era sicuro che non fosse né drogato né avvelenato, o semplicemente non gliene importava più un accidente? Con una scrollata di spalle, anche Miles mangiò.

Inghiottendo l’ultima goccia di caffè, chiese: «Ha potuto cogliere qualche accenno sullo scopo di tutta questa messinscena? Devono essersi dati una gran pena per produrre questo… mio duplicato. Non può trattarsi solo di un complotto di piccole dimensioni.»

Galeni, un po’ meno pallido in volto grazie al cibo, fece roteare il caffè nella tazzina e rispose: «So quello che mi hanno detto loro, ma non so se è la verità.»

«Va bene, racconti.»

«C’è una cosa che deve capire: il gruppo di mio padre è soltanto una frangia radicale della resistenza komarrana. I due gruppi non si parlano da anni, ed è questa una della ragioni per cui noi, la Sicurezza Barrayarana…» un sorriso ironico gli comparve per un istante sulle labbra, «… non ne sapevamo niente. Negli ultimi dieci anni, la resistenza vera e propria ha perso gran parte del suo impeto. I figli degli espatriati, che non ricordano Komarr, sono cresciuti come cittadini di altri pianeti. E i più vecchi sono… be’, sono invecchiati. Alcuni sono morti. E dal momento che in patria le cose non vanno poi così male, non fanno più nuovi adepti. È una base di potere che si sta riducendo, si sta riducendo al punto critico.»

«Capisco benissimo come questo possa spingere la frangia radicale a fare qualche mossa, finché ne hanno ancora il tempo.»

«Sì, sono alle corde.» Galeni stritolò tra le mani il bicchiere di carta. «Si sono ridotti ad azioni azzardate.»

«Mi sembra non solo azzardato, ma anche stravagante, impegnare diciassette, diciotto anni in una cosa come questa. Come diavolo hanno fatto a trovare la tecnologia e l’attrezzatura scientifica per fare un clone? Suo padre era un dottore?»

«Niente affatto» sbuffò Galeni. «Ma la parte scientifica è stata la più facile, una volta che sono entrati in possesso del campione di tessuto rubato su Barrayar. Per quanto, non capisco come siano riusciti ad averlo…»

«Ho passato i miei primi sei anni di vita tra esami, cure, radiografie, biopsie, prelievi e quant’altro… devono esserci chili di me che galleggiano in più di un laboratorio medico, non c’era che l’imbarazzo della scelta. Non deve essere stato difficile. Ma la clonazione…»

«L’hanno commissionata, a qualche laboratorio illegale sul pianeta del Gruppo Jackson, mi è sembrato di capire, che per denaro farebbero qualunque cosa.»

Miles lo fissò a bocca aperta per qualche istante. «Oh. Quelli.»

«Conosce quelli del Gruppo Jackson?»

«Ho… avuto modo di imbattermi nel loro lavoro in un altro contesto. E che mi venga un colpo se non sono in grado di farle anche il nome del laboratorio che può averlo fatto! Sono degli esperti nel campo. Tra le altre cose, compiono le operazioni illegali di trasferimento del cervello, illegali dappertutto tranne che nel Gruppo Jackson intendo: sviluppano il clone in una vasca di crescita e poi vi trasferiscono il cervello del vecchio (del vecchio ricco, naturalmente)… e hanno fatto anche dei lavori di bioingegneria di cui però non posso parlare… E per tutto questo tempo hanno avuto una copia di me nel retrobottega… quei figli di puttana, questa volta scopriranno che non sono poi intoccabili come credono!» Miles controllò un’attacco incipiente di iperventilazione: la vendetta personale contro il gruppo Jackson doveva essere rimandata ad un momento più propizio. «Dunque, per i primi dieci o quindici anni, la resistenza komarrana ha investito denaro solo nel progetto. Non mi stupisce quindi che non se ne sia mai saputo niente.»

«Esatto» disse Galeni. «Poi, qualche anno fa, hanno deciso di tirar fuori quell’asso dalla manica. Hanno ritirato il clone, che ormai era un adolescente completo e hanno cominciato ad addestrarlo perché diventasse lei.»

«Per quale ragione?»

«Sembra che vogliano impadronirsi dell’Imperium.»

«Che cosa!?» gridò Miles. «No! Non con me…»

«Quel… quell’individuo… era in piedi proprio là» disse Galeni indicando un punto accanto alla porta, «due giorni fa e mi ha detto che avevo di fronte il futuro Imperatore di Barrayar.»

«Dovrebbero uccidere sia l’Imperatore Gregor che mio padre per riuscire ad attuare questo progetto» esclamò Miles frenetico.

«Immagino che sia proprio quello che non vedono l’ora di fare» disse Galeni secco. Poi si sdraiò sulla panca, con gli occhi socchiusi e le mani dietro la testa a mo’ di cuscino e ronfò: «Sul mio cadavere, naturalmente.»

«Sui cadaveri di tutti e due. Non oseranno lasciarci vivi.»

«Mi sembrava di averlo accennato ieri.»

«Però, se qualcosa va storto» lo sguardo di Miles si posò sulla lampada, «potrebbe fargli comodo avere degli ostaggi.» Pronunciò quell’affermazione in tono chiaro, sottolineando il plurale, anche se temeva che, dal punto di vista di Barrayar, solo uno di loro due potesse avere valore come ostaggio. E Galeni non era uno sciocco, sapeva anche lui chi era il capro espiatorio.

Maledizione, maledizione, maledizione. Miles si era cacciato in quella trappola, ben sapendo che fosse una trappola, con la speranza di guadagnare proprio il genere di informazioni che erano adesso in suo possesso… ma non era nelle sue intenzioni restarci in quella trappola. Si massaggiò il collo, frustrato… che gioia sarebbe stato poter chiamare una pattuglia d’attacco dendarii, a ripulire quel nido di ribelli… in quel momento…

La serratura della porta scattò. Era troppo presto per il pranzo. Miles si girò di scatto, con la folle speranza di vedere il comandante Quinn alla testa di una pattuglia venuta a liberarlo… no. Erano di nuovo i due scagnozzi, più un terzo armato di storditore.

Uno di loro fece un gesto verso Miles: «Tu, vieni con noi.»

«Dove?» chiese Miles sospettoso. Che fosse già la fine… stavano per riportarlo nel garage e sparargli un colpo alla nuca o spezzargli il collo? Non aveva nessuna voglia di incamminarsi volontariamente verso la morte.

Un’idea simile doveva essere passata anche per la mente di Galeni, perché mentre i due afferravano Miles senza tanti complimenti, il capitano si avventò su di loro. Quello con lo storditore lo atterrò prima che arrivasse a metà strada. Galeni si contorse, stringendo i denti in un disperato tentativo di resistere, ma poi crollò a terra, immobile.

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