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— Quando i creechie avranno finito di bruciare il campo, torneremo noi a bruciare i creechie. Ci devono essere quattromila creechie radunati in un posto solo, laggiù. Abbiamo sei lanciafiamme nel retro dell’elicottero. Diamo loro tempo una ventina di minuti. Poi cominciamo con il napalm e spariamo coi lanciafiamme a quelli che corrono via.

— Cristo — esclamò Aabi, con violenza — alcuni dei nostri potrebbero essere ancora laggiù, i creechie potrebbero avere fatto dei prigionieri, non lo sappiamo. Io non torno laggiù per bruciare forse degli esseri umani.

Non voltò indietro l’elicottero.

Davidson appoggiò la bocca del revolver contro la nuca di Aabi e disse: — Sì, invece, noi torniamo indietro; perciò fatti forza, bambino, e non darmi fastidio.

— In serbatoio c’è carburante sufficiente a portarci alla Centrale, capitano — disse il pilota. Continuava a cercare di allontanare la testa dal contatto della pistola, come se una mosca gli desse fastidio. — Ma quello è tutto. Tutto quello che abbiamo.

— Allora potremo fare un mucchio di giri. Volta direzione, Aabi.

— Penso che faremmo meglio ad andare alla Centrale, capitano — disse Post, con la sua voce stolida.

Il fatto che si dessero mano in questo modo contro di lui fece arrabbiare Davidson a tal punto che, voltata dall’altra parte la pistola che aveva in mano, scattò rapido come un serpente e colpì Post sopra l’orecchio con l’impugnatura. Il boscaiolo si ripiegò su se stesso come una cartolina d’auguri natalizi e rimase a sedere sulla poltroncina anteriore, con la testa tra le ginocchia e la mano penzolante.

— Volta direzione, Aabi — disse Davidson, con la frusta nella voce.

L’elicottero voltò, descrivendo un largo arco.

— Accidenti, dov’è il campo? Non ho mai pilotato questo elicottero di notte senza segnali da seguire — disse Aabi, parlando in un tono sordo e nasale, come se avesse il raffreddore.

— Dirigiti verso est e cerca di trovare l’incendio — disse Davidson, freddo e calmo.

Nessuno di loro aveva veramente del fegato, neppure Temba. Nessuno di loro gli era rimasto al fianco quando il cammino era diventato davvero duro. Presto o tardi tutti facevano lega contro di lui, perché non riuscivano ad affrontare le cose come faceva lui. I deboli cospirano contro il forte, il forte deve rimanere da solo e badare a se stesso. Semplicemente, era il modo in cui andavano le cose. Dov’era il campo?

Avrebbero dovuto scorgere le case incendiate a distanza di chilometri, in quella profonda oscurità, anche con la pioggia. Nulla compariva. Cielo grigio-nero, terreno nero. I fuochi dovevano essere spenti. Essere stati spenti. Che gli umani avessero respinto i creechie? Dopo che lui era scappato?

Il pensiero gli attraversò la mente come uno spruzzo d’acqua gelida. No, ovviamente no, non in cinquanta contro migliaia. Ma, per Dio, doveva esserci un mucchio di brandelli di creechie saltati in aria, tutt’intorno ai campi minati. Era solo perché erano arrivati così maledettamente numerosi. Nulla sarebbe stato in grado di fermarli. Lui non avrebbe potuto predisporre difese adatte.

E da dove erano arrivati? Non c’era stato alcun creechie nella foresta, in nessuno di quei paraggi, per giorni e giorni. Dovevano essersi rovesciati laggiù da qualche altra parte, da tutte le direzioni, strisciando fin lì in mezzo ai boschi, uscendo dalle loro tane come topi. Non c’era modo di fermare una massa di creechie come quella, migliaia e migliaia.

Dove diavolo era il campo? Aabi cercava di ingannarlo, sbagliava volutamente la rotta.

— Trova quel campo, Aabi — disse piano.

— Dio Cristo, è quello che cerco di fare — disse il ragazzo.

Post non si era mosso, ripiegato sul sedile accanto al pilota.

— Non può essere scomparso, ti pare, Aabi? Hai sette minuti per trovarlo.

— Trovatevelo voi — disse Aabi, con voce acuta e torva.

— Non prima che tu e Post vi siate rimessi in riga, bambino. Abbassa l’elicottero, riduci la velocità.

Dopo un minuto, Aabi disse: — Quello sembra essere il fiume.

C’era infatti un fiume, e una larga radura; ma dov’era il Campo New Java? Non si mostrò mentre si dirigevano a nord, sorvolando la radura.

— Dev’essere questo, non c’è nessun’altra grossa radura, è questo — disse Aabi, ritornando sulla zona senza alberi.

Le loro luci d’atterraggio erano accese, ma non si vedeva nulla, al di là dei tunnel delle luci; sarebbe stato meglio spegnerle. Davidson allungò una mano al disopra della spalla del pilota e spense le luci. Il buio fitto e opaco fu come un asciugamano nero sbattuto sui loro occhi.

— Dio Cristo! — urlò Aabi, e riaccese le luci, inclinò l’elicottero a sinistra e in alto, ma non abbastanza in fretta. Molti alberi si curvarono verso di loro, uscendo dalla notte, e afferrarono la macchina.

Le pale urlarono, scagliando foglie e rami, come trascinati da un ciclone, entro le chiare vie delle luci, ma i tronchi degli alberi erano assai vecchi e forti. La piccola macchina volante si tuffò, parve scuotersi e liberarsi, e cadde di lato fra gli alberi. Le luci si spensero. Il rumore cessò.

— Non mi sento troppo bene — disse Davidson.

Lo ripeté. Poi smise di dirlo, poiché non c’era nessuno a cui dirlo. Infine si accorse di non averlo assolutamente detto. Si sentiva stordito. Doveva essere stato colpito alla testa. Aabi non c’era. Dov’era? Questo era l’elicottero. Era tutto girato al contrario, ma lui era ancora seduto al suo posto. Era così buio, come essere ciechi.

Si tastò intorno, e trovò Post, inerte, ancora ripiegato, infilato tra il sedile anteriore e il cruscotto. L’elicottero tremava ogni volta che Davidson si muoveva, e lui alla fine comprese di non essere sul terreno, ma incuneato tra gli alberi, fermo laggiù come un aquilone.

La sua testa andava meglio; provava un desiderio sempre maggiore di uscire dalla carlinga nera, inclinata. Si spinse, fino al sedile del pilota e sporse fuori le gambe, si appese con le mani, ma non riuscì a toccare il terreno: solo rami, che graffiavano le sue gambe penzolanti. Infine si lasciò cadere, senza nessuna idea della distanza che lo separava dal suolo: ma non poteva resistere dentro a quella carlinga.

Fu un salto di poco più di un metro. L’urto gli scosse tutte le ossa, ma presto si sentì meglio, stando in piedi. Aveva una torcia alla cintura; ne aveva sempre una, la sera, al campo. Ma la torcia non c’era. Strano. Doveva essere caduta. Avrebbe fatto meglio a risalire sull’elicottero per prenderla. Forse l’aveva presa Aabi.

Aabi aveva intenzionalmente mandato l’elicottero a fracassarsi, aveva preso la torcia di Davidson e poi aveva cercato di allontanarsi. L’untuoso piccolo bastardo; era come tutti gli altri.

L’aria era buia e piena di umidità, e non si capiva dove si mettevano i piedi, era tutto radici, cespugli e intrichi. C’erano rumori tutt’intorno, acqua che cadeva, minuscoli fruscii, piccoli animali che ti scivolavano intorno nell’oscurità.

Avrebbe fatto meglio a risalire sull’elicottero per prendere la torcia. Ma non lo vedeva, e non sapeva come raggiungerlo. Con la punta delle dita non giungeva neppure a sfiorare la parte inferiore del portello.

C’era una luce, un fievole lumicino che si lasciava scorgere e poi scompariva fra gli alberi. Aabi aveva preso la torcia e si era allontanato per esplorare, per orientarsi, bravo ragazzo.

— Aabi! — chiamò, con un acuto bisbiglio.

I suoi piedi incontrarono qualcosa di strano, mentre si muoveva per cercare di vedere nuovamente la luce tra gli alberi. Diede un calcio all’oggetto, con gli stivali, poi abbassò una mano per toccarlo, con attenzione, poiché è poco consigliabile toccare le cose che non si possono vedere.

Un mucchio di roba umidiccia, scivolosa: come un topo morto. Ritrasse immediatamente la mano. Dopo un poco, provò a tastare in un altro punto: sotto la sua mano c’era uno stivale, poteva distinguere i lacci intrecciati. Doveva essere Aabi quello che giaceva laggiù, proprio sotto i suoi piedi.

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