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E non valeva la pena di tagliare alberi semplicemente per il piacere di farlo; era un lavoro faticoso. Tanto valeva bruciarli.

Davidson esercitò gli uomini a squadre, elaborando tecniche per appiccare fuoco alla foresta. Il tempo era ancora troppo piovoso perché potessero combinare molto, ma l’addestramento teneva occupata la loro mente. Se soltanto avesse avuto a disposizione gli altri tre elicotteri, avrebbe potuto davvero colpire e poi scomparire…

Studiò la possibilità di un’incursione alla Centrale per liberare gli elicotteri, ma per il momento non parlò di questo piano neppure con Aabi e Temba, i suoi più stretti collaboratori. Alcuni dei ragazzi si sarebbero messi fifa al solo pensiero di un’incursione armata al loro Quartier Generale. Continuavano a parlare di: "Quando ritorneremo con gli altri". Non sapevano che quegli altri li avevano abbandonati, li avevano traditi, venduto la loro pelle ai creechie. Ma non lo disse; sarebbe stata troppo dura per loro.

Un giorno, lui, Aabi e Temba e un altro uomo sano e intelligente si sarebbero limitati a portare laggiù l’elicottero, poi tre di loro sarebbero saltati fuori con i mitra, avrebbero preso un elicottero per uno, e poi di nuovo a casa, op-là. Con quattro bei frullini per sbattere le uova. Non si può fare la frittata senza sbattere le uova. Davidson scoppiò a ridere, nell’oscurità del suo bungalow. Mantenne segreto il piano ancora per un poco, perché si sentiva solleticare piacevolmente a quel pensiero.

Un paio di settimane più tardi, avevano eliminato tutte le tane di creechie raggiungibili a piedi, e la foresta era pulita e lustra. Più nessun parassita. Nessun filo di fumo al disopra degli alberi. Nessun creechie che saltasse fuori dai cespugli e si buttasse a terra con gli occhi chiusi, aspettando di farsi calpestare. Più niente omini verdi. Solo un mucchio di alberi e varie zone bruciate. I ragazzi diventavano davvero nervosi e sgarbati; era ora di fare l’incursione per catturare gli elicotteri. Riferì una sera il suo piano ad Aabi, Temba e Post.

Nessuno di loro parlò per un minuto, poi Aabi disse: — E per quel che riguarda il carburante, capitano?

— Abbiamo sufficiente carburante.

— Non per quattro elicotteri; non durerebbe una settimana.

— Vuoi dire che resta solo una scorta di un mese per quello che abbiamo?

Aabi annuì.

— Be’, allora dobbiamo prendere anche un po’ di carburante, a quanto sembra.

— E in che modo?

— Applicatevi al problema.

Tutti si misero a guardarlo senza far niente, con un’aria stupida. La cosa gli diede fastidio. Si rivolgevano sempre a lui, per qualsiasi cosa. Lui era un capo per dono di nascita, ma gli piaceva che gli uomini sapessero anche pensare per conto proprio.

— Trova tu il modo, è il tuo tipo di lavoro, Aabi — disse, e uscì a fumarsi una sigaretta, disgustato del modo in cui tutti si comportavano, come se avessero perso il fegato. Quegli uomini non riuscivano ad affrontare la fredda, dura realtà.

Ormai erano alla fine della scorta di marijuana, e lui stesso non aveva fumato nel corso degli ultimi due giorni. Ma la sigaretta non riuscì a dargli alcuna soddisfazione. La notte era coperta e nera, umida, tiepida, con un odore come di primavera. Ngenene gli passò davanti, camminando come un pattinatore sul ghiaccio, o anzi come un robot montato su ruote; nel bel mezzo di un passo scivolante, si girò con somma lentezza e fissò lo sguardo su Davidson, che era fermo sotto il porticato del bungalow, nella poca luce proveniente dalla porta d’ingresso. Era un manovratore di seghe elettriche, un omone.

— La fonte della mia energia è collegata al Grande Generatore, non posso venire spento — disse con voce priva di inflessione, fissando Davidson.

— Torna nella tua baracca e dormici sopra! — disse Davidson, con quella sua voce simile a una sferza che nessuno disobbediva mai, e dopo un momento Ngenene si allontanò, scivolando attentamente, ponderoso e leggiadro.

Troppi suoi uomini usavano gli allucinogeni in modo sempre più pesante. Ce n’era un mucchio, ma quella roba era per boscaioli che si rilassavano la domenica, non per soldati di un piccolo avamposto abbandonato su un mondo ostile. Non avevano tempo per esilararsene, per sognare.

Era meglio chiudere a chiave le droghe. Ma alcuni dei ragazzi si sarebbero potuti spezzare. Be’, che si spezzassero pure. Non puoi fare la frittata senza spezzare le uova. Forse avrebbe potuto rimandarli alla Centrale in cambio di un po’ di carburante. Voi mi date due, tre bidoni di benzina, e io vi do due, tre corpi caldi, fedeli soldati, buoni boscaioli, esattamente il vostro tipo, solamente incamminati un po’ troppo nel paese dei sogni…

Sorrise, e stava tornando all’interno per parlare della proposta con Temba e gli altri, quando la sentinella appostata in cima al camino della segherìa lanciò un urlo.

— Stanno arrivando! — gridò con voce acutissima, come un bambino che giocasse a Neri e Rhodesiani.

Qualcun altro, dalla parte ovest della palizzata, cominciò a urlare a sua volta. Un colpo di fucile.

E arrivavano davvero. Cristo, come arrivavano. Ce n’erano migliaia, migliaia. Nessun suono, nessun rumore, fino a quell’urlo della sentinella; poi una singola fucilata; poi un’esplosione… una mina anti-uomo che scoppiava… e un’altra, una dopo l’altra e centinaia e centinaia di torce che venivano accese l’una dall’altra e venivano scagliate e volavano come razzi nell’aria nera e umida, e le pareti della palizzata che diventavano vive a forza di creechie che si riversavano, traboccavano, spingevano, sciamavano; migliaia di creechie.

Era come un esercito di ratti che Davidson aveva visto una volta, quando era bambino, nell’ultima Carestia, nelle strade di Cleveland, Ohio, dove era cresciuto. Qualcosa aveva cacciato i topi dalle loro tane, ed essi erano usciti alla luce del sole, formicolando su per le pareti: una coperta pulsante, fatta di pelo e occhi e piccole mani e denti, e lui aveva urlato per chiamare sua madre ed era scappato via come un pazzo; oppure era stato solo un sogno che aveva fatto da bambino?

Era importante mantenere il sangue freddo. L’elicottero era parcheggiato nel recinto dei creechie; era ancora completamente buio da quella parte, e lui vi giunse immediatamente. La porta era chiusa: la teneva sempre chiusa, nel caso a qualcuna delle sorelline fifone venisse l’idea di volarsene fino a Papà Din-Don-Dan in qualche notte buia. Gli parve che prendere la chiave, infilarla nella serratura e girarla nel verso giusto gli richiedesse un tempo esageratamente lungo, ma era solo questione di conservare la calma, e poi gli occorse un altro lungo tempo per correre fino all’elicottero e aprire il portello.

Ora Post e Aabi erano con lui. E infine si alzò il possente rumore dei rotori che sbattevano le uova, che coprivano tutti gli altri folli rumori, le voci acute che urlavano e stridevano e cantavano. Poi si sollevarono, e l’inferno si precipitò lontano da loro, sotto di loro: un recinto pieno di sorci, in fiamme.

— Occorre del sangue freddo per afferrare immediatamente la natura di una situazione di emergenza — disse Davidson. — Voi uomini avete pensato in fretta e agito in fretta. Ottimo lavoro. Dov’è Temba?

— Si è preso una lancia nello stomaco — disse Post.

Aabi, il pilota, sembrava voler guidare l’elicottero, e Davidson gli passò i comandi. Raggiunse a tentoni uno dei sedili posteriori, e si appoggiò allo schienale, per rilassarsi i muscoli. La foresta scorreva sotto di loro, nero sotto nero.

— Dove ti stai dirigendo, Aabi?

— Centrale.

— No. Noi non vogliamo andare alla Centrale.

— E allora dove vogliamo andare? — chiese Aabi, con una sorta di risolino femmineo. — New York? Pechino?

— Limitati a mantenere in volo l’elicottero per un po’ di tempo, Aabi, e vola in cerchio attorno al campo. Grandi cerchi. Fuori portata di udito.

— Capitano, ormai non c’è più nessun Campo New Java — disse Post, caposquadra dei boscaioli, un uomo solido, massiccio.

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