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Lepennon

Selver non vedeva Lyubov da molto tempo. Quel sogno era andato con lui a Rieshwel. Era stato con lui quando aveva parlato per l’ultima volta a Davidson. Poi se ne era andato, e forse ora dormiva nella tomba della morte di Lyubov a Eshsen, poiché non era mai venuto a Selver nella città di Broter in cui lui adesso abitava.

Ma quando la grande nave ritornò, e lui si recò a Eshsen, Lyubov si incontrò laggiù con lui. Era silenzioso e tenue, molto triste, e così l’antico gravoso dolore in Selver si ridestò.

Lyubov rimase con lui, ombra della sua mente, anche quando incontrò gli umani scesi dalla nave. Questi erano persone di potere; erano assai diversi da ogni umano che lui avesse conosciuto, a eccezione del suo amico, ma erano uomini ben più forti di quanto Lyubov fosse mai stato.

Il suo linguaggio umano si era un po’ arrugginito, e dapprima si limitò a lasciarli parlare per la maggior parte del tempo. Quando fu ragionevolmente certo del tipo di persone che erano, mise davanti a loro la pesante scatola che si era portato da Broter.

— Qui dentro c’è il lavoro di Lyubov — disse, faticando a trovare le parole. — Conosceva più cose, su di noi, di quante ne conoscessero gli altri. Imparò la mia lingua e il Linguaggio degli Uomini; noi abbiamo scritto tutto su carta. Un poco capiva il modo in cui noi viviamo e sogniamo. Gli altri non lo capiscono. Io vi darò il suo lavoro, se voi lo porterete nel luogo da lui desiderato.

L’umano alto, dalla pelle bianca, parve molto felice, e ringraziò Selver, dicendo che senza dubbio quelle carte sarebbero state portate dove Lyubov desiderava, e laggiù sarebbero state assai apprezzate.

Questo piacque a Selver. Ma era stato penoso per lui pronunciare a voce alta il nome dell’amico, poiché il volto di Lyubov era ancora amaramente triste quando si rivolse a lui nella propria mente.

Si allontanò un poco dagli umani, e li osservò. Dongh e Gosse e gli altri di Eshsen erano presefiti, insieme con i cinque della nave. I nuovi avevano un aspetto pulito e lucido come ferro nuovo. I vecchi si erano lasciati crescere il pelo sulla faccia, così assomigliavano un poco a dei grossi Athshiani dal pelo nero.

Indossavano ancora abiti, ma gli abiti erano vecchi e non erano puliti. Non erano magri, a eccezione del Vecchio Uomo, che era stato malato a partire dalla Notte di Eshsen; ma tutti avevano un poco l’aspetto di uomini che si sono perduti o che sono pazzi.

L’incontro si svolgeva ai margini della foresta, in quella zona dove per tacito accordo né il popolo della foresta né gli umani avevano costruito abitazioni né si erano accampati negli anni trascorsi fino a quel momento. Selver e i suoi compagni si sedettero all’ombra di un grosso frassino che sorgeva a una certa distanza dai bordi della foresta. Le sue bacche erano soltanto dei piccoli nodi rossi sullo sfondo dei rami, ora come ora, le sue foglie erano lunghe e sottili, labili, verdi per l’estate. La luce, al disotto dell’albero, era morbida, complicata di infinite ombre.

Gli umani si consultavano e andavano e venivano, e infine uno solo di loro si avvicinò al frassino. Era quello dai modi duri, proveniente dalla nave, il comandante.

Si accosciò sulle caviglie accanto a Selver, senza chiedere il permesso ma senza intenzioni evidenti di offesa. Disse: — Possiamo parlare un poco?

— Certamente.

— Tu sai che porteremo via con noi tutti i terrestri. Abbiamo con noi una seconda nave per trasportarli. Il tuo mondo non sarà più usato come una colonia.

— Questo è il messaggio che ho udito a Broter, quando siete giunti tre giorni fa.

— Volevo assicurarmi che tu comprendessi che si tratta di una decisione permanente. Noi non ritorneremo. Il tuo mondo è stato posto sotto il Divieto della Lega. Il significato di queste parole, nei vostri termini, è: posso prometterti che nessuno verrà a tagliare gli alberi o a portarvi via la terra, finché la Lega avrà vita.

— Nessuno di voi tornerà qui — disse Selver, affermazione o domanda che fosse.

— No, per cinque generazioni. Nessuno. Poi forse alcuni uomini, dieci o venti, non più di venti, forse verranno a parlare con il tuo popolo, a studiare il vostro mondo, così come facevano alcuni degli uomini che erano qui.

— Gli scienziati, gli Specialisti — disse Selver. Meditò su quelle parole.

— Voi decidete le questioni tutti quanti insieme, la vostra gente — disse, anche questa volta a metà tra un’affermazione e una domanda.

— Che cosa intendi dire? — Il comandante sembrava guardingo.

— Be’, voi dite che nessuno di voi deve tagliare gli alberi di Athshe: e ciascuno di voi si ferma. Eppure voi abitate in molti luoghi. Ora, se una donna-capo di Karach desse un ordine, esso non verrebbe obbedito dalla gente di un altro villaggio, e certamente non lo verrebbe da tutta la gente del mondo immediatamente…

— No, perché voi non avete un unico governo che comandi a tutti. Ma noi sì… adesso… e ti assicuro che i suoi ordini vengono obbediti. Da tutti noi, immediatamente. Ma, in effetti, mi pare di capire, dalla storia che mi è stata riferita dai coloni di qui, che quando tu hai dato un ordine, Selver, esso è stato obbedito da tutti, su ogni isola, immediatamente. Come hai potuto farlo?

— In quel momento ero un dio — disse Selver, senza alcuna particolare espressione.

Dopo che il comandante lo ebbe lasciato, l’umano lungo e bianco venne bighellonando fino a lui e gli chiese il permesso di sedere all’ombra dell’albero. Aveva tatto, quell’umano, ed era estremamente acuto. Selver si trovava a disagio con lui.

Così come Lyubov, questo umano si sarebbe comportato in modo gentile; avrebbe capito, eppure a sua volta sarebbe stato profondamente incomprensibile. Infatti anche il più gentile di loro era altrettanto fuori contatto, altrettanto irraggiungibile, quanto il più crudele. Ecco perché la presenza di Lyubov nella sua mente restava dolorosa per lui, mentre invece i sogni in cui vedeva e toccava la sua defunta moglie Thele erano preziosi e pieni di pace.

— Quando sono stato qui la volta scorsa — disse Lepennon — ho incontrato quell’uomo, Raj Lyubov. Ho avuto pochissime occasioni di parlare con lui, ma ricordo quanto mi ha detto; e da allora ho avuto il tempo di leggere alcuni dei suoi studi sulla vostra gente. Il suo lavoro, come tu dici.

"In gran parte, è per merito di quel lavoro che Athshe è adesso libera dalla Colonia Terrestre. Questa liberazione era diventata lo scopo dell’intera vita di Lyubov, penso. Tu, essendo suo amico, vorrai fare in modo che la sua morte non gli impedisca di arrivare al suo scopo, di finire il suo viaggio."

Selver rimase immobile. L’inquietudine si trasformò in paura nella sua mente. Questo umano parlava come un Grande Sognatore.

Non diede alcuna risposta.

— Vuoi dirmi una cosa, Selver? Se la domanda non ti offende. Non ci saranno altre domande dopo di questa… Ci sono state le uccisioni: al Campo Smith, poi in questo luogo, Eshsen, e infine al Campo New Java, dove Davidson guidava il gruppo ribelle. Questo è stato tutto. Più nessuna uccisione dopo di allora… È vero, ciò? Non ci sono più state uccisioni?

— Io non ho ucciso Davidson.

— Questo non importa — disse Lepennon, fraintendendo; Selver aveva inteso dire che Davidson non era morto, ma Lepennon aveva capito che qualcun altro avesse ucciso Davidson.

Sollevato nel vedere che l’umano poteva sbagliare, Selver non lo corresse.

— Non ci sono state altre uccisioni, dunque?

— Nessuna. Loro possono dirtelo — disse Selver, indicando il colonnello e Gosse.

— Tra il tuo stesso popolo, intendo. Athshiani che uccidono Athshiani.

Selver tacque.

Alzò gli occhi su Lepennon, sulla sua strana faccia, bianca come lo Spirito del Frassino, che cambia nell’incontrare il tuo sguardo.

— A volte arriva un dio — disse Selver. — Porta un nuovo modo di fare una cosa, o una nuova cosa da farsi. Un nuovo tipo di canzone, o un nuovo tipo di morte. La porta facendole attraversare il ponte che c’è tra il tempo del sogno e quello del mondo.

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