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Era stato scagliato fuori della carlinga quando l’elicottero era caduto. Be’, se lo meritava, per quel suo inganno da Giuda, cercare di ritornare alla Centrale. A Davidson non piaceva il contatto con quegli abiti che non poteva vedere e coi capelli. Si raddrizzò. C’era di nuovo la luce, interrotta dalle strisce nere di tronchi d’albero vicini e lontani, un bagliore lontano che si muoveva.

Davidson portò la mano alla fondina. Il revolver non c’era.

L’aveva in mano, nel caso Post o Aabi si opponessero. Non era più nella sua mano. Doveva essere su, nell’elicottero, insieme con la torcia.

Rimase accovacciato, immobile; poi tutt’a un tratto cominciò a correre. Non poteva vedere dove stesse andando. I tronchi d’albero lo sbattevano da una parte all’altra quando urtava contro di essi, e le radici facevano inciampare i suoi piedi.

Cadde di schianto, rovinando in mezzo ai cespugli. Messosi a quattro zampe, cercò di nascondersi. Ramoscelli neri e umidi gli graffiarono la faccia. Contorcendosi, si infilò più profondamente tra i cespugli. Il suo cervello era totalmente occupato dagli odori complessi della dissoluzione e della crescita, foglie morte, disfacimento, nuovi germogli, fronde, fiori: gli odori della notte e della primavera e dell’aria. La luce lo illuminò in pieno. Vide i creechie.

Ricordò ciò che facevano quando erano braccati, e ciò che Lyubov aveva detto sull’argomento. Si girò sulla schiena e giacque a terra con la testa rovesciata all’indietro, gli occhi chiusi. Il cuore gli balbettava nel petto.

Non accadde nulla.

Era difficile aprire gli occhi, ma infine riuscì a farlo. I creechie si limitavano a stare intorno a lui: un mucchio di creechie, dieci o venti. Avevano quelle lance che usavano per la caccia, piccole armi simili a giocattoli, ma la loro lama di ferro era affilata, potevano tagliarti benissimo le budella. Richiuse gli occhi e rimase lì sdraiato, immobile.

E nulla accadde.

Il suo cuore si calmò; gli parve di riuscire a pensare meglio. Qualcosa si agitava nel suo intimo, qualcosa che assomigliava a una risata. Per Dio, non potevano abbatterlo! Quando anche i suoi stessi uomini lo tradivano, quando l’intelligenza umana non poteva fare altro per lui, allora lui usava contro di loro i loro stessi trucchi… si fingeva morto come adesso, e faceva scattare il riflesso istintivo che impediva loro di uccidere chiunque assumesse quella posizione.

I creechie si limitavano a stare intorno a lui, mormorandosi qualcosa l’un l’altro. Non potevano fargli del male. Era come se lui fosse stato un dio.

— Davidson.

Dovette nuovamente aprire gli occhi. La torcia resinosa portata da uno dei creechie bruciava ancora, ma era diventata pallida, e la foresta era color grigiastro, adesso, non più nera come pece. Come era potuto succedere? Erano passati solamente cinque, dieci minuti. Era ancora difficile vedere, ma ormai non era più notte.

Poteva distinguere le foglie e i rami, la foresta. Poteva distinguere la faccia che lo guardava dall’alto. Non aveva colore in quell’indistinto crepuscolo dell’alba. I lineamenti sfregiati sembravano quelli di un uomo. Gli occhi erano come dei fori bui.

— Fatemi alzare — disse d’improvviso Davidson, con voce forte e roca.

Tremava dal freddo per essere rimasto steso sul terreno umido. Non poteva rimanere lì sdraiato, con Selver che lo guardava dall’alto al basso.

Selver non aveva nulla in mano, ma un mucchio di quei piccoli diavoli intorno a lui avevano non solo lance, ma anche revolver. Rubati alla sua armeria, al campo. Si alzò faticosamente in piedi. I vestiti, umidi e freddi, gli rimanevano appiccicati alle spalle e dietro le gambe, e lui non riusciva a fermare i tremori.

— Falla finita — disse Davidson. — Svelto, scat-tare!

Selver si limitò a fissarlo. Almeno, adesso doveva guardare in alto, molto in alto, per incontrare lo sguardo di Davidson.

— Vuoi che ora ti uccida? — domandò.

Aveva imparato quel modo di parlare da Lyubov, naturalmente, pensò Davidson, perfino la voce si sarebbe potuta scambiare per quella di Lyubov. Era quasi sovrannaturale.

— Sono padrone di farlo, no?

— Be’, sei stato a giacere in terra per tutta la notte nel modo che indica che desideri che ti lasciamo vivere; adesso vuoi morire?

Il dolore alla testa e allo stomaco, il suo odio per quell’orribile piccolo mostriciattolo che parlava come Lyubov e che lo aveva alla sua mercé, il dolore e l’odio si combinarono e gli rovesciarono lo stomaco: ebbe un conato e per poco non vomitò. Tremava per il freddo e la nausea. Cercò di afferrarsi al coraggio. All’improvviso fece un passo avanti e sputò in faccia a Selver.

Ci fu una piccola pausa, poi Selver, con una sorta di movimento danzante, sputò addosso a lui. E rise. E non fece alcuna mossa per uccidere Davidson. Davidson si ripulì dalle labbra lo sputo gelido.

— Vedi, capitano Davidson — disse il creechie, con quella sua voce esile e tranquilla che a Davidson faceva girare la testa e lo stomaco — siamo entrambi degli dèi, tu e io. Tu sei un dio insano, e io non sono sicuro di essere sano o no. Ma noi siamo degli dèi.

"Non ci sarà mai più un altro incontro nella foresta, simile all’incontro che si svolge ora tra noi. Noi ci portiamo l’un l’altro il tipo di doni che si portano gli dèi. Tu mi hai fatto un dono, l’uccisione dei propri simili, l’omicidio. Ora, per quanto posso, io ti faccio il dono del mio popolo, che è quello di non uccidere.

"Io penso che ciascuno di noi troverà gravoso da sopportare il dono dell’altro. Comunque, tu dovrai portarlo da solo. La tua gente di Eshsen mi dice che se ti porterò laggiù, dovranno dare un giudizio su di te e ucciderti, la loro legge vuole così. Dunque, se voglio darti la vita, non posso portarti a Eshsen con gli altri prigionieri; e non posso lasciarti a vagare nella foresta, perché fai troppo danno. E così tu sarai trattato come uno di noi che sia diventato matto. Tu sarai condotto a Rendlep, dove nessuno abita più, e lasciato là."

Davidson fissò a occhi sbarrati il creechie, non riuscì a distogliere lo sguardo da lui. Era come se avesse su di lui un potere ipnotico. Non riusciva a sopportarlo. Nessuno aveva alcun potere su di lui. Nessuno poteva ferirlo.

— Avrei dovuto romperti il collo subito, quel giorno che hai provato ad assalirmi — disse, con voce ancora roca e spessa.

— Forse sarebbe stato meglio — rispose Selver. — Ma Lyubov ha evitato che tu lo facessi. Così come ora mi impedisce di ucciderti… Tutte le uccisioni sono ormai finite. E anche l’abbattimento degli alberi. Non ci sono alberi da tagliare su Rendlep.

"Si tratta del posto che voi chiamate Isola Discarica. Il tuo popolo non ha lasciato laggiù alcun albero, e così tu non puoi fare una barca e allontanarti da essa. Non c’è molto che cresca ancora laggiù, e dunque noi dovremo portarti cibo e legna da bruciare.

"Non c’è nulla da uccidere su Rendlep. Né alberi, né persone. Mi pare un posto adatto perché tu ci viva, dato che vuoi vivere. Laggiù potresti imparare come sognare, ma più probabilmente seguirai la tua follia fino alla sua giusta fine, col tempo."

— Uccidimi adesso e piantala con queste tue maledette vanterie.

— Ucciderti? — disse Selver, e i suoi occhi, alzandosi verso quelli di Davidson, parvero brillare, infinitamente chiari e terribili, nella prima luce della foresta. — Io non posso ucciderti, Davidson. Tu sei un dio. Dovrai farlo tu stesso.

Si voltò e si allontanò, leggero e svelto, e dopo pochi passi sparì tra gli alberi grigi.

Un cappio scivolò sulla testa di Davidson e si strinse un poco intorno alla sua gola. Piccole lance si avvicinarono alla sua schiena da ogni lato. I creechie non cercarono di ferirlo. Sarebbe potuto correre via, avrebbe potuto fare un tentativo di fuga, essi non osavano ucciderlo. Le lame erano lucide, a forma di foglia, affilate come rasoi. Il cappio gli tirò leggermente il collo. Lui li seguì dove decisero di condurlo.

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