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Selver

Quella notte non ci furono canti. Solamente grida e silenzi. Quando le navi volanti bruciarono, Selver esultò, e lacrime gli spuntarono agli occhi, ma nessuna parola alla bocca. Distolse lo sguardo, in silenzio; il lanciafiamme era pesante nelle sue mani: si accinse a guidare nuovamente il gruppo entro la città.

Ciascun gruppo di persone dell’Ovest e del Nord era guidato da un ex schiavo come lui: uno che avesse servito gli umani alla Centrale e conoscesse gli edifici e le vie della città.

Molte delle persone che erano venute per l’attacco quella notte non avevano mai visto la città degli umani; molte di loro non avevano mai visto un umano. Erano venute perché seguivano Selver, perché erano spinte dal cattivo sogno e solamente Selver poteva insegnare loro a padroneggiarlo.

Ce n’erano centinaia e centinaia, uomini e donne; avevano atteso in profondo silenzio nel buio e nella pioggia, tutt’intorno al perimetro della città, mentre gli ex schiavi, due o tre alla volta, facevano quelle cose che, a loro giudizio, occorreva fare per prime: spaccare la conduttura dell’acqua, tagliare i fili che portavano la luce della Casa del Generatore, fare irruzione nell’Arsenale e saccheggiarlo.

Le prime morti, quelle delle guardie, erano avvenute in silenzio, mediante armi da caccia: cappio, coltello, freccia; molto rapidamente, nel buio. La dinamite, rubata tempo prima, nella notte, al campo dei boscaioli quindici chilometri più a sud, venne messa nell’Arsenale, nella cantina dell’edificio del Quartier Generale, mentre i fuochi vennero appiccati in altri luoghi; poi suonò l’allarme, i fuochi scoppiarono e sia la notte che il silenzio fuggirono.

La maggior parte del rumore di tuono e d’alberi caduti della fucileria veniva dagli umani che si difendevano, poiché solamente gli ex schiavi avevano preso armi dall’Arsenale e le avevano usate; tutti gli altri rimasero con le lance, i coltelli e gli archi. Ma era stata la dinamite, collocata e accesa da Reswan e da altri che avevano lavorato come schiavi nei campi dei tagliaboschi, a fare il rumore che aveva conquistato ogni altro rumore, a far scoppiare le pareti del Quartier Generale e a distruggere gli hangar e le navi.

C’erano circa millesettecento umani nella città quella notte, e circa cinquecento di essi erano femmine; si diceva che tutte le femmine umane fossero laggiù in quel momento, e questo era il motivo che aveva spinto all’azione Selver e gli altri, anche se non si erano ancora radunate tutte le persone che desideravano partecipare all’attacco. Un numero di uomini compreso tra quattromila e cinquemila era giunto attraverso le foreste all’Incontro di Endtor, e da lì alla città, a quella notte.

I fuochi bruciavano alti, e l’odore dell’incendio e del macello era cattivo.

Selver aveva la bocca secca e la gola dolorante, e perciò non poteva parlare, e avrebbe desiderato bere dell’acqua. Mentre guidava il suo gruppo lungo il sentiero centrale della città, un umano giunse di corsa incontro a loro, stagliandosi gigantesco sullo sfondo del buio e il bagliore dell’aria satura di fumo.

Selver sollevò il lanciafiamme e premette sulla lingua dell’arma, proprio mentre l’umano scivolava nel fango e cadeva annaspando sulle ginocchia. Nessun sibilante getto di fiamma corse fuori dalla macchina, si era tutta consumata nel bruciare le navi aeree che non erano chiuse nell’hangar. Selver lasciò cadere la macchina pesante. L’umano non era armato, ed era maschio.

Selver cercò di dire: — Lasciatelo fuggire — ma la sua voce era debole, e due uomini, cacciatori dei boschi di Abtan, erano già corsi davanti a lui, mentre parlava, brandendo lunghi coltelli. Le grosse, nude mani cercarono di afferrarsi all’aria, poi ricaddero immobili. Il grosso corpo giacque in un mucchio informe sul sentiero.

Ce n’erano molti altri che giacevano morti, laggiù in quello che era stato il centro della città. Non c’erano più tanti rumori, a eccezione di quello dei fuochi.

Selver aprì le labbra e lanciò con voce roca il richiamo del ritorno a casa, che pone fine alla caccia; coloro che erano con lui lo raccolsero, e lo ripeterono più chiaramente, più forte, con un falsetto che si prolungò; altre voci risposero, vicine e lontane, nella foschia e nell’odore e nell’oscurità della notte interrotta dalle fiamme.

Invece di condurre subito fuori della città il suo gruppo, Selver segnalò ai compagni di andare avanti da soli e si allontanò lateralmente, sul terreno fangoso, che separava il sentiero da un edificio che era bruciato ed era caduto. Scavalcò il corpo di una femmina umana morta e si chinò su un umano che giaceva a terra, schiacciato da un grosso, annerito palo di legno. Non riuscì a distinguere i lineamenti del viso, cancellati dal fango e dall’oscurità.

Non era giusto; non era necessario; lui non avrebbe dovuto guardare quel morto tra così tanti altri. Non avrebbe dovuto riconoscerlo nel buio. Fece per avviarsi dietro al proprio gruppo. Poi tornò indietro; con sforzo, sollevò il palo e lo tolse dalla schiena di Lyubov; si inginocchiò, facendo scivolare una mano sotto la pesante testa, cosicché Lyubov parve giacere più comodamente, con la faccia lontana dal suolo; e laggiù Selver si inginocchiò, immobile.

Non dormiva da quattro giorni, e non rimaneva fermo a sognare da un tempo ancora più lungo… non sapeva esattamente da quanto. Aveva agito, parlato, viaggiato, fatto piani notte e giorno fin da quando aveva lasciato Broter con i suoi seguaci venuti da Cadast.

Era andato da una città all’altra parlando al popolo della foresta, annunciando loro la nuova cosa, svegliandoli dal sogno e portandoli nel mondo, predisponendo tutto in modo che la cosa venisse fatta quella notte, parlando, parlando sempre e ascoltando altri parlare, mai in silenzio e mai solo.

Gli altri l’avevano ascoltata, l’avevano sentita ripetere ed erano giunti fino a lui per seguirlo, e per seguire la nuova via. Avevano raccolto nelle loro mani il fuoco di cui avevano paura: avevano raccolto nelle loro mani il dominio sul sogno cattivo: e avevano liberato sul nemico la morte che essi temevano. Tutto era stato fatto così come, secondo le sue parole, doveva essere fatto. Tutto si era svolto come aveva detto lui.

Le Logge e molte abitazioni degli umani erano state bruciate, le loro navi volanti erano state bruciate o rotte, le loro armi rubate o distrutte; le loro femmine erano morte. I fuochi si stavano spegnendo, la notte diventava assai scura, guastata dal fumo. Selver non riusciva quasi a vedere; alzò gli occhi verso l’est, chiedendosi se l’alba fosse prossima. Inginocchiato laggiù nel fango tra i morti, pensò: Questo è ora il sogno, il sogno cattivo. Io pensavo di guidarlo, ma è stato lui a guidare me.

Nel sogno, le labbra di Lyubov si mossero un poco contro il palmo della sua mano; Selver abbassò gli occhi e vide che le palpebre del morto erano aperte. Il riflesso dei fuochi morenti luccicava sulla superficie degli occhi di Lyubov. Dopo un poco, Lyubov pronunciò il nome di Selver.

— Lyubov, perché sei rimasto qui? Ti avevo detto di allontanarti dalla città questa notte. — Così Selver parlò nel sogno, seccamente, come se fosse adirato nei confronti di Lyubov.

— Sei tu il prigioniero? — disse Lyubov, debolmente e senza sollevare la testa, ma con una voce così normale che Selver pensò, per un istante, che quello non fosse il tempo del sogno, ma invece il tempo del mondo, la notte della foresta. — Oppure lo sono io?

— Nessuno, entrambi, come posso saperlo? Tutti i motori e le macchine sono bruciati. Tutte le donne sono morte. Abbiamo lasciato fuggire gli uomini, se hanno voluto farlo. Ho detto di non dare fuoco alla tua casa, i libri non hanno subito danni. Lyubov, perché tu non sei come gli altri?

— Io sono come loro. Un uomo. Come loro. Come te.

— No, tu sei diverso…

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