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"E, una volta che l’abbia fatto, è fatto. Non puoi prendere le cose che esistono nel mondo e cercare di ricacciarle nel sogno, di trattenerle all’interno del sogno mediante pareti e pretese. Questa è pazzia. Ciò che è, è. Non vale pretendere, adesso, che noi non sappiamo ucciderci l’un l’altro."

Lepennon posò la sua lunga mano su quella di Selver, in modo così rapido e gentile che Selver accettò il contatto come se quella mano non appartenesse a uno straniero. L’ombra verde e dorata delle foglie di frassino guizzò su quelle mani.

— Ma voi non dovrete pretendere di avere delle ragioni per uccidervi l’un l’altro. L’omicidio non ha mai ragioni — disse Lepennon, e la sua faccia era alquanto ansiosa e triste come quella di Lyubov. — Dobbiamo andare. Tra due giorni partiremo. Tutti. Per sempre. E allora le foreste di Athshe ritorneranno come erano prima.

Lyubov uscì dalle ombre della mente di Selver e disse: — Io sarò qui.

— Lyubov sarà qui — disse Selver. — E Davidson sarà qui. Tutt’e due. Forse, dopo che io sarò morto, la gente ritornerà com’era prima che io nascessi, e prima che giungeste voi. Ma io ne dubito.

Commento dell’autore

Scrivere è di solito per me un lavoro faticoso, ma piacevole; invece questa storia è risultata facile a scriversi, ma sgradevole. Non mi ha lasciato scelta. Scriverla è stato un po’ come stenografare sotto dettatura di un capufficio con l’ulcera. Le cose di cui avrei voluto scrivere erano la foresta e il sogno; cioè intendevo descrivere dall’interno una certa ecologia, e giocare con alcune idee di Hadfield e Dement sulla funzione del sonno onirico e gli usi del sogno. Ma il capufficio voleva parlare della distruzione degli equilibri ecologici e del rifiuto degli equilibri affettivi. Non voleva affatto giocare. Voleva dare una morale. Io non amo molto le storie moraleggianti, poiché spesso mancano di carità. Spero che a questa non manchi. Posso solamente dire - avendone dovuto fare l’esperienza - che è ancor più doloroso essere Don Davidson che essere Raj Lyubov.

FINE
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