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In sala comando c’erano due individui. Uno stava sdraiato in una delle tre cuccette d’accelerazione a gingillarsi con manopole e quadranti, l’altro stava eseguendo un misterioso lavoretto con il cacciavite. Quello nella cuccetta mi lanciò un’occhiata, ma non aprì bocca. L’altro si voltò, fece la faccia preoccupata e chiese, guardando oltre me: — Cos’è successo a Jacques?

Alle mie spalle, Dak intanto era arrivato, quasi volando fuori del portello. — Non c’è tempo! — tagliò corto. — Hai già rifatto i calcoli senza il suo peso?

— Sì.

— Red, è pronto il piano di volo? La torre di controllo?

L’uomo sulla cuccetta si sollevò pigramente sul gomito, e dichiarò: — Ho rifatto i calcoli ogni due minuti. La rotta è libera, dice la torre di controllo. Meno quaranta… ehm… sette secondi al via.

— Vìa dalla cuccetta! — lo incitò Dak. — Svelto! Non voglio perdere un secondo.

Red si alzò dalla cuccetta con riluttanza, mentre Dak prendeva i comandi. L’altro mi fece sdraiare sulla cuccetta del pilota in seconda e mi legò come un salame con le cinture di sicurezza. Poi si voltò e si lasciò scivolare giù per il condotto da cui eravamo saliti noi. Red gli andò dietro, ma si fermò dopo due o tre scalini, ergendosi con tutta la testa e le spalle. — Signori, prego, biglietti! — gridò in tono faceto.

— Oh, perdio! — Dak allentò la cintura di sicurezza, infilò la mano in tasca, estrasse i due permessi che ci erano serviti per scivolare a bordo clandestinamente, e li gettò a Red.

— Grazie — disse Red. — Vediamoci qualche volta in chiesa — scherzò. — Accensione! e tutto quel che segue. — Si dileguò per la scaletta con calma; sentii il rumore del portello pressurizzato che si chiudeva, e un’improvvisa pressione ai timpani. Dak non rispose all’augurio di Red; era indaffarato a girare le manopole del computer e ad apportare piccole correzioni al piano di volo.

— Ventun secondi — mi comunicò. — Non ci sarà nessun conto alla rovescia. Stia attento a tenere le braccia dentro, e cerchi di rilassarsi. La partenza andrà liscia come il burro.

Ubbidii senza fiatare, e aspettai per ore in uno stato di tensione spasmodica, come se avesse dovuto alzarsi il sipario su una prima. Alla fine azzardai: — Dak?

— Zitto!

— Solo una cosa: dove andiamo?

— Marte. — Vidi il suo pollice affondare su un pulsante rosso, e piombai nell’incoscienza.

2

Cosa ci sarà, poi, di tanto divertente in una persona che sta male come un cane? Certi fessi con lo stomaco foderato di lamiera ridono sempre, vedendone una. Scommetto che riderebbero perfino se vedessero che la nonna è cascata per terra e si è spaccata le gambe.

Il mal di spazio mi colpì in forma acuta, non occorre dirlo, appena si spensero i motori del razzo ed entrammo in caduta libera. I conati finirono relativamente in fretta, visto che il mio stomaco aveva poco da restituire — non avevo mangiato niente, dalla prima colazione in poi — ma rimasi in uno stato di malessere opaco per tutto il resto (eterno) di quel viaggio infernale. Ci volle un’ora e quarantatré per giungere al punto convenuto, il che equivale all’incirca a mille anni di purgatorio per un terricolo come me.

Va detto a onore di Dak che non rise. Era uno spaziale di professione, lui, e considerò la mia reazione, peraltro normalissima, con la cortesia impersonale delle assistenti di volo, non come quei cialtroni ridanciani e senza sale in zucca che compaiono nelle liste dei passeggeri dei traghetti lunari. Se comandassi io, quei burloni li sbatterei nello spazio, senza tuta, e li lascerei ridere a crepapelle… nel vuoto interplanetario.

Nonostante il turbine di pensieri che mi sconvolgeva la mente e le mille domande che avrei voluto formulare, eravamo già quasi arrivati al punto d’incontro con una "nave torcia", che ci aspettava su un’orbita di parcheggio intorno alla Terra, prima che trovassi la forza di riprendermi e d’interessarmi di quanto mi concerneva. Sono convinto che se prendono una persona che soffre di mal di spazio e le comunicano che verrà giustiziata l’indomani all’alba, la sua unica reazione sarà questa: — Davvero? Mi passa quel sacchetto, per favore?

Ma finalmente cominciai a sentirmi un po’ meglio, vale a dire che, invece d’indicare il desiderio della morte, con profonda convinzione, l’ago della bilancia era risalito fino a un certo interesse sparuto e titubante per la prosecuzione della vita. Dak continuava a darsi da fare con il comunicatore del razzo, e sembrava stesse parlando su un raggio direzionale molto sottile, perché spostava continuamente il controllo dell’antenna, come un mitragliere antiaereo che aggiustasse il tiro su un bersaglio difficile. Non riuscivo a sentire quello che diceva, e non potevo neppure leggergli le labbra, perché aveva ficcato tutta la parte inferiore del volto nella mascherina del laringofono. Ritenni, comunque, che stesse parlando con l’astronave da lunga crociera che dovevamo raggiungere, la "nave torcia".

Quando finalmente si tolse il comunicatore e lo mise da parte, accendendosi una sigaretta, dominai il conato di nausea che la semplice vista del tabacco mi aveva suscitato nello stomaco e chiesi: — Dak, non le sembra venuto il momento di spiegarmi qualcosa?

— Avremo tutto il tempo mentre saremo in viaggio per Marte.

— Ah sì? Accidenti a lei e alla sua presunzione! — protestai debolmente. — Non ho nessuna voglia di andare su Marte. Non avrei neppure preso in considerazione la sua offerta assurda, se avessi saputo che occorreva andare su Marte.

— Calma. Lei non è obbligato ad andarci.

— Eh?

— Il portello stagno è lì alle sue spalle. Scenda giù e torni a casa a piedi. E si ricordi di chiudere la porta.

Non mi degnai di rispondere alla spiritosaggine, e lui andò avanti: — Però, a meno che lei non riesca a respirare il vuoto assoluto, la cosa più semplice è rassegnarsi a venire con me su Marte: ci penserò io, poi, a farla tornare sulla Terra. La Puoi farcela, che sarebbe la bagnarola su cui siamo imbarcati, sta per incontrarsi con la Passa al primo turno!, che è una nave torcia da lunga accelerazione. Diciassette secondi dopo avere preso contatto con la Passa al primo turno!, secondo più secondo meno, e noi saremo già su a torciare per Marte. Dobbiamo assolutamente esserci entro mercoledì.

Risposi con la cocciutaggine e l’irritazione di chi sta male. — Non ho alcuna intenzione di venire su Marte. Non ho intenzione di muovermi da questo razzo. Qualcuno dovrà certo venire a prenderlo per riportarlo sulla Terra. Lei non mi frega.

— Verissimo — convenne lui. — Qualcuno lo riporterà sulla Terra, ma lei non sarà a bordo. I tre furfanti che dovrebbero essere su questa bagnarola (secondo i documenti rimasti al Campo Jefferson), adesso sono sulla Passa al primo turno! Come lei avrà certamente notato, questa baracca ha tre soli posti, e non credo che i miei tre amici saranno molto d’accordo nel cederne uno a lei. Inoltre, come se la caverebbe con l’ufficio "Immigrazione"?

— Non importa! Mi basta tornare a terra.

— A terra sì, ma in prigione, e con tutta una serie di accuse che vanno dall’immigrazione illegale alla violazione del traffico spaziale. Come minimo, poi, penseranno che tentasse d’introdurre merce di contrabbando. La porteranno in uno stanzino tranquillo, dietro gli uffici. Prenderanno una bella siringa e le faranno un’iniezione qui, proprio in mezzo agli occhi, per farle raccontare tutto. Inoltre, le assicuro che sapranno già esattamente le domande che occorre farle; lei non potrà fare altro che vuotare il sacco. L’unica cosa che non crederanno, però, è che fossi presente anch’io. Perché io, cioè il loro vecchio amico Dak Broadbent, non potevo essere sulla Terra: sono fuori da un putiferio di tempo, nello spazio. Ho testimoni pronti a giurarlo, e si tratta di persone di specchiata onestà, assolutamente fuor d’ogni sospetto.

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