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Bill non aspettò.

Afferrò il bicchiere dell’acqua minerale che stava di fronte al mio posto, sul tavolo; l’avevo toccato varie volte. — Si fotta, l’attrezzatura! Questo basterà.

— L’ho già avvertita varie volte, Bill, di moderare il suo linguaggio in presenza d’una signora. Ma può tenere il bicchiere.

— Lo terrò, lo terrò, può starne certo.

— Come vuole. Però ora mi faccia il favore d’andarsene immediatamente, altrimenti sarò costretto a chiamare davvero le guardie.

Bill uscì nel silenzio generale. — Se i signori me lo permettono — dissi — vorrei fare omaggio anche a loro delle mie impronte digitali.

Ackroyd s’affrettò a dire: — Oh, sono certo che non ci occorreranno affatto, signor Primo Ministro.

— Per piacere!… Se volete mettere in un articolo queste affermazioni, è meglio che abbiate delle prove. — Insistevo perché in primo luogo era nel carattere farlo (e in secondo e terzo luogo, non si può essere "un pochino" incinta o "un pochino" smascherati), e perché non volevo che Bill precedesse nella pubblicazione della notizia i miei amici giornalisti che erano presenti; era l’ultima cosa che potevo fare per loro.

Non fu necessario andare a prendere l’attrezzatura per rilevare le impronte. Penny aveva della carta carbone, e qualcuno aveva anche uno di quei blocchetti per appunti "eterni", con fogli di plastica; le impronte vennero riprodotte meravigliosamente. Poi salutai e uscii.

Non andammo più in là dell’ufficio di Penny; appena chiusa la porta, ella cadde a terra di schianto, svenuta. La sollevai e la portai nel mio studio, deponendola sul divano, poi andai a sedermi allo scrittoio e lì, per vari minuti, continuai a tremare come una foglia per la reazione nervosa.

Per tutto il resto del giorno nessuno di noi due riuscì a combinare molto. Cercammo di comportarci nel modo consueto, salvo il fatto che Penny cancellò tutti gli appuntamenti, accampando diverse scuse. Avrei dovuto fare un discorso quella sera stessa, ma pensavo seriamente di rimandarlo. Ascoltai i notiziari stereo per tutta la giornata, ma non riuscii a sentire una sola parola che alludesse all’incidente della mattinata. Pensai che tutti volessero attendere il referto sulle impronte, prima d’arrischiarsi a diffondere la notizia: dopotutto si pensava che io fossi il Primo Ministro di Sua Maestà Imperiale, e in simili casi si chiede una conferma… Così mi decisi a tenere ugualmente il discorso, poiché l’avevo già scritto e mi avevano anche assegnato l’ora. Non potei neppure consultarmi con Dak: era via, a Tycho City.

Credo sia stato il miglior discorso da me pronunciato. Vi misi lo stesso tipo d’impegno che può usare un comico per tranquillizzare la folla in preda al panico nel teatro che brucia. Terminata la ripresa, mi limitai ad affondare il volto tra le mani e a piangere, mentre Penny mi batteva la mano sulla spalla per consolarmi. Non avevamo fatto parola tra noi di quell’orribile avvenimento.

Rog arrivò sulla Luna alle 21 esatte, meridiano di Greenwich, cioè nel momento in cui terminavo il discorso. Appena sceso dal traghetto venne da me a riferire.

Con voce monotona, opaca, gli raccontai tutta quella sporca faccenda. Egli m’ascoltò con in bocca un sigaro spento e con il volto privo d’espressione.

Alla fine gli dissi, con tono quasi di scusa: — Dovevo assolutamente dare quelle impronte, Rog. Capisce anche lei, vero? Se mi fossi rifiutato non sarei più stato nel carattere del personaggio.

— Non se ne preoccupi — disse Rog.

— Come?

— Ho detto: "Non se ne preoccupi". Quando arriverà il referto su quelle impronte dall’Ufficio Identificazioni dell’Aia, lei avrà una piccola ma piacevole sorpresa, e il nostro ex amico Bill ne avrà una anche lui, un po’ più grossa e molto meno piacevole. Se ha già incassato un anticipo del suo sporco denaro, probabilmente gli strapperanno la pelle per farselo restituire. Lo spero sinceramente.

Era impossibile che avessi capito male il significato delle sue parole. — Oh… Ma, Rog — balbettai — non si fermeranno a quello; ci sono molti altri posti dove conservano le mie impronte. Le Assicurazioni Sociali… Sì, un mucchio di posti.

— Cosa crede? Che ne abbiamo trascurato qualcuno? Capo, sapevo benissimo che poteva succedere, una volta o l’altra, quello che è successo oggi. Dal momento in cui Dak ci ha passato parola di completare il piano Mardi Gras, ha avuto inizio il lavoro di copertura necessario, dappertutto. Solo che non mi era parso necessario informarne anche Bill. — Aspirò dal suo sigaro spento, se lo tolse di bocca e l’osservò. — Povero Bill…

Penny mandò un gemito e svenne di nuovo.

10

Riuscimmo, non so come, ad arrivare anche all’ultimo giorno della campagna elettorale. Di Bill non ci giunsero più notizie. Dalle liste dei passeggeri dei traghetti lunari scoprimmo che era ritornato sulla Terra due giorni dopo il suo fiasco. Può darsi che qualche giornale abbia riportato tutta la storia del clamoroso incidente, ma noi non ne venimmo mai a conoscenza, né Quiroga vi fece mai cenno nei suoi discorsi.

L’onorevole Bonforte continuò a migliorare; c’era quasi la certezza che dopo le elezioni avrebbe potuto riprendere il suo posto. In parte la paralisi continuava a sussistere, ma avevamo preparato una spiegazione anche per quella: per prima cosa, egli si sarebbe preso un periodo di riposo subito dopo le elezioni, come facevano abitualmente quasi tutti gli uomini politici, trascorrendo la vacanza sulla Tom Paine, al sicuro da tutto e da tutti. Poi, in un dato momento durante il viaggio, io sarei stato trasferito di nascosto e riportato clandestinamente sulla Terra, mentre gli altri avrebbero diffuso la voce che il Capo, in seguito agli strapazzi della campagna elettorale, aveva sofferto di un piccolo collasso.

Rog avrebbe dovuto rimettere a posto una certa quantità d’impronte digitali, ma poteva provvedere con calma a questo aspetto della sostituzione, attendendo fino a un anno o anche più.

Il giorno delle elezioni mi sentivo felice come un gattino nella scatola delle scarpe. La sostituzione era ormai terminata, anche se dovevo ancora compiere qualche breve "siparietto". Avevo già registrato due discorsi per la rete stereovisiva imperiale, entrambi della durata di cinque o sei minuti. In uno mi dichiaravo magnanimamente soddisfatto della vittoria, nell’altro ammettevo con signorilità la sconfitta; il mio lavoro terminava lì. Una volta registrata l’ultima parola e impacchettato il nastro, afferrai Penny e la baciai. Parve che lei non se ne accorgesse neppure.

L’ultimo "numero" che mi restava da fare era ordinato dall’alto. L’onorevole Bonforte voleva vedermi nei suoi panni prima che lasciassi per sempre la parte. Ora la cosa non mi dava più disturbo. Finito il periodo del massimo sforzo, non correvo più alcun pericolo nel fargli visita; recitare la sua parte per intrattenere lui stesso sarebbe stato un qualsiasi numero d’imitazione, con la sola differenza che l’avrei recitato dal vero. Ma cosa sto dicendo? Recitare dal vero è l’essenza stessa della professione drammatica!

S’era convenuto che tutti gli intimi si sarebbero riuniti nel salotto belvedere perché Bonforte, dopo essere rimasto al chiuso per varie settimane, desiderava rivedere almeno le stelle. Lì avremmo ascoltato i risultati elettorali, e poi avremmo brindato alla vittoria o annegato il dispiacere della sconfitta nell’alcol, ripromettendoci di far meglio la prossima volta. Cancellate per favore il mio nome dal cast della "prossima volta"; lì terminava la mia prima e ultima campagna elettorale, e non desideravo ritornare mai più alla politica. Non ero neppure sicuro di desiderare di ritornare a recitare. Recitare ogni minuto, ininterrottamente, per più di sei settimane, equivale a circa cinquecento rappresentazioni di lunghezza normale. Ero già stato fin troppo tempo sulla ribalta.

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