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Quella fastidiosa maschera marziana per poco non ci diede il colpo di grazia. Io non avevo mai avuto occasione d’impararne l’uso: Dak non ci aveva pensato e io non avevo ritenuto che fosse difficile da usare. In altre occasioni avevo già portato respiratori spaziali e respiratori subacquei, e pensavo che anche questa sarebbe stata come tutte le altre. Invece era una cosa totalmente diversa. Il modello favorito di Bonforte era del tipo che lasciava libera la bocca, una "Vento dolce" della Mitsubushi, pressurizzata direttamente sul naso. Comprendeva un morsetto e due tamponi per chiudere il naso, e due tubicini, uno per ciascuna narice, che poi passavano dietro gli orecchi e si collegavano a un piccolo compressore che aderiva alla nuca. Sono d’accordo che sia un dispositivo molto ingegnoso, una volta che uno lo sappia usare nel modo corretto; esso infatti consente di parlare, di mangiare, di bere eccetera, senza necessità di sfilarselo. Ma a me diede un fastidio irragionevole, come andare dal dentista.

La difficoltà consiste in questo: occorre esercitare un controllo volontario sui muscoli che chiudono il fondo della bocca, altrimenti si lascia scappare l’aria e si fischia come una vaporiera: quella maledetta maschera pompa nei polmoni aria sotto pressione. Per fortuna il pilota, appena ci fummo tutti infilati le maschere, portò la cabina alla pressione marziana, e io potei dedicarmi per una ventina di minuti ad apprenderne l’uso. Ma per qualche tempo temetti che tutta la nostra messinscena sarebbe fallita miseramente, scivolando su un piccolo, stupido particolare meccanico. Mi sforzai di convincermi che avevo già indossato la maschera centinaia di volte, che per me era una cosa altrettanto familiare e normale come lo spazzolino da denti, e finii col crederci anch’io.

Dak era riuscito a evitarmi le chiacchiere col Commissario per l’ora di volo dall’astronave al pianeta, ma non poté impedire che venisse ad accogliermi allo spazioporto. Il poco tempo disponibile m’impedì d’incontrare altre persone, perché dovevo affrettarmi a partire per la città marziana. Era logico, anche se sembrava strano: sarei stato più al sicuro tra i marziani che tra i terrestri come me. Ancor più strano, era il fatto di trovarmi su Marte.

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Il signor Commissario Boothroyd, ovviamente, era stato designato per quell’incarico dal Partito dell’umanità, come del resto tutti i suoi funzionari, eccetto quelli del ramo tecnico: le nomine di questi dipendevano direttamente dallo Stato e non dal partito attualmente al governo. Dak mi aveva però detto di essere quasi sicuro, diciamo sessanta probabilità su cento, che non avesse preso parte al rapimento di Bonforte; Dak lo riteneva una persona stupida, sì, ma onesta. Sempre a proposito delle responsabilità nel complotto, sia Dak che Rog Clifton erano convinti che neppure il Primo Ministro, Quiroga, ne facesse parte; attribuivano il misfatto al gruppo clandestino dei terroristi che si celavano in seno al Partito dell’umanità e che si chiamavano gli "Azionisti": secondo Dak e Rog, il gruppo clandestino era finanziato e fomentato da qualche alto papavero che pensava di approfittare della situazione.

Quanto a me, io avevo sempre creduto che gli azionisti fossero solo quelli che compravano azioni di borsa.

Tuttavia, entro un minuto dal nostro arrivo, saltò fuori una grana che mi portò a chiedermi se davvero l’amico Boothroyd fosse così onesto e così stupido come pensava Dak. Era un particolare di secondaria importanza, ma era proprio una di quelle cose che possono far naufragare un lavoro di sostituzione come il mio. Poiché io ero una Very Important Person in visita, il Commissario era venuto a salutarmi all’arrivo, ma poiché al momento non ricoprivo cariche pubbliche se non quella di appartenente alla Grande Assemblea, e poiché il mio non era un viaggio ufficiale, non vi fu nessuna cerimonia formale. Il Commissario era solo, accompagnato dal suo assistente e da una ragazzetta di una quindicina d’anni.

Lo conoscevo dalle fotografie, e sapevo molte cose di lui; Rog e Penny mi avevano dato molte informazioni sul suo conto e sul comportamento da adottare in sua presenza. Gli strinsi calorosamente la mano, gli domandai come stesse di salute (sapevo che da quando era su Marte soffriva di sinusite), lo ringraziai per la sua ospitalità nel corso della mia ultima visita, e scambiai qualche parola con quell’affabile condiscendenza in cui Bonforte eccelleva. Poi passai alla ragazzina. Sapevo che Boothroyd aveva figli, di cui una dell’età di quella. Non sapevo però (e forse non lo sapevano neppure Rog e Penny) se l’avevo o non l’avevo già vista in altre occasioni.

Fu lo stesso Boothroyd a darmi una mano. — Lei non ha ancora conosciuto mia figlia Deirdre, credo. Ha insistito per venire anche lei…

Nelle registrazioni che avevo studiato, non avevo mai avuto modo di osservare il comportamento di Bonforte nei riguardi delle adolescenti: così, invece di rifarmi a un modello prestabilito, dovetti agire in tutto e per tutto come si sarebbe comportato, secondo me, Bonforte; dovetti pensare di essere lui… un bonario vedovo cinquantacinquenne senza figli e senza nipoti, probabilmente privo di esperienza diretta con ragazzine di quell’età, ma con moltissima esperienza nell’incontrare estranei di tutti i tipi. Quindi trattai la figlia del Commissario come se avesse avuto il doppio dei suoi anni e mi chinai a baciarle la mano. Lei arrossì, confusa e compiaciuta.

Boothroyd fece un sorriso indulgente e osservò: — Su, cara, domandaglielo. Forse non ti capiterà più un’occasione come questa.

Lei arrossì ancora più violentemente e mi disse: — Signore, potrei avere il suo autografo? Tutte le mie compagne di scuola fanno la collezione. Ho quello del signor Quiroga… vorrei avere anche il suo… — e tirò fuori un album che aveva tenuto nascosto dietro la schiena.

Mi sentii come un conducente d’elicottero a cui chiedono di mostrare la patente che ha dimenticato a casa, in un altro paio di calzoni. Avevo studiato come un matto il personaggio di Bonforte, ma non mi sarei mai aspettato di doverne imitare la firma. Accidenti, non si può fare tutto, in due giorni e mezzo!

Ma Bonforte non poteva assolutamente rifiutare una simile richiesta, e poiché io ero Bonforte, sorrisi giovialmente e domandai: — E così lei, signorina, ha già l’autografo di Quiroga?

— Sissignore.

— Solo la firma?

— Sì… cioè, ha anche scritto "Auguri".

Io strizzai l’occhio a suo padre. — Solo "Auguri", eh? Io, alle signorine simpatiche come lei, non scrivo mai meno che "Con molto affetto, incantato dalla sua presenza". Adesso vedrà cosa ho intenzione di fare… — le presi l’album e cominciai a scorrerne le pagine.

— Capo — si affrettò a interrompere Dak — bisogna far presto.

— Calma — gli ordinai, senza alzare la testa. — Tutta la nazione marziana può aspettare, se necessario, quando si tratta di una giovane dama. — Porsi l’album a Penny. — Per favore, vuol prendere nota delle misure di questo album? E ricordarmi di inviare una fotografia con autografo delle dimensioni adatte perché la signorina possa incollarla? Debitamente firmata, è chiaro.

— Sì, onorevole Bonforte.

— Va bene così, signorina Deirdre?

— Ciampoli!

— Allora, d’accordo. E grazie per avermelo chiesto. Ora credo che possiamo accomiatarci, capitano. Signor Commissario, quella è la nostra vettura?

— Sì, onorevole. — Scosse la testa e aggiunse: — Temo che abbia convertito un membro della mia famiglia alle sue eresie espansioniste. Le pare una cosa sportiva? È come sparare a un’anatra di gesso, non trova?

— Così imparerà a non farle frequentare cattive compagnie… non le pare, signorina Deirdre? — Scambiai con loro un’altra stretta di mano. — Grazie per essere venuto ad accoglierci, signor Commissario. Mi scusi, ora, ma non vorrei arrivare in ritardo.

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