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A parte il piccolo slancio d’entusiasmo puerile che avevo provato credendo per un attimo che Dak combattesse contro i marziani, i suoi progetti non m’interessavano per niente, e persino quell’entusiasmo si era dileguato immediatamente al sentire che i marziani gli piacevano, in generale. E quel suo lavoro di controfigura, non l’avrei toccato neppure con la proverbiale pertica. Che andasse al diavolo! Tutto ciò che desideravo dalla vita era quel tanto di denaro sufficiente a tenere insieme anima e corpo, e l’occasione di poter mettere in pratica la mia arte. Le bambinate tipo guardie e ladri non rivestivano per me il minimo interesse: come forma di teatro le giudicavo piuttosto squallide.

Lo spazioporto Jefferson sembrava fatto apposta per facilitare l’attuazione del mio piano. Affollato e assordante nella sua baraonda, con espressi pneumatici che si allontanavano a ragnatela in ogni direzione e che l’attraversavano da un capo all’altro, bastava che Dak mi togliesse gli occhi di dosso un momento e mi sarei subito trovato su un abitacolo per Omaha. Mi sarei tenuto nascosto per qualche settimana, poi avrei ripreso contatto con il mio agente, con circospezione, per vedere se qualcuno mi avesse cercato nel frattempo.

Dak mi fece scendere dall’abitacolo spingendomi per il braccio, altrimenti gli avrei chiuso la portiera alle spalle e sarei partito subito. Feci finta di non accorgermi della sua manovra, e rimasi appiccicato a lui come un manifesto mentre salivamo sulla scala mobile che portava all’atrio principale, immediatamente sotto il livello del suolo. Sbucammo tra gli uffici della Pan-American e quelli dell’American Skylines. Dak tagliò dritto per la sala d’attesa e si avviò direttamente verso la Diana, Ltd. Ne dedussi che intendesse prendere il biglietto per il traghetto della Luna. Come poi pensasse di riuscire a farmi salire a bordo, senza passaporto e certificati di vaccinazione, era una cosa che non riuscivo a immaginare, anche se mi ero già accorto che era un tipo dalle mille risorse. Decisi di confondermi tra la tappezzeria quando avrebbe tirato fuori il portafogli; quando si contano i soldi ci sono sempre alcuni secondi in cui gli occhi e l’attenzione non riescono a badare a nient’altro

Invece oltrepassò gli uffici della Diana e si diresse a una porta a vetri su cui spiccava la scritta: ORMEGGI PRIVATI. Nel corridoio oltre la porta non c’era molta gente, e le pareti erano di muratura, nude e lisce. Mi resi conto con dispetto che mi ero lasciato scappare di mano l’occasione migliore, prima, tra la folla dell’atrio. Mi fermai, e chiesi: — Dak, ha intenzione di salire su un razzo?

— Certo.

— Dak, lei è pazzo! Non ho i certificati, non ho neppure il permesso turistico per la Luna…

— Non ne avrà bisogno.

— Ah no? Ci fermeranno all’"Emigrazione" e lì troveremo un poliziotto grosso come un armadio che comincerà a far domande.

Una mano enorme mi artigliò il braccio. — Non stiamo a perder tempo. Perché lei dovrebbe passare per l’"Emigrazione" se, ufficialmente, non sta partendo? E perché dovrei passarci io, che ufficialmente non sono mai arrivato? Svelto, brutto marpione.

Io sono abbastanza robusto, e anche alto, ma mi sentii trascinato di peso, come se il braccio di un robot del traffico m’avesse abbrancato per togliermi da un punto pericoloso. Vidi un’insegna con la scritta: UOMINI, e feci un tentativo disperato per svincolarmi. — Dak, per piacere, mezzo minuto. Ho una piccola necessità idraulica…

Mi sghignazzò in faccia. — Ah, proprio? Ma se c’è andato un attimo prima di uscire dall’albergo. — Non rallentò il passo e non mi lasciò andare.

— Soffro di reni…

— Lorenzo, brutto marpione, qui mi sembra di scorgere un caso di fifa galoppante. Stia a sentire cosa conto di fare. Vede quel poliziotto laggiù? — Alla fine del corridoio, negli uffici degli ormeggi privati, c’era un difensore della sicurezza pubblica. Calmo e tranquillo, si riposava i piedi sul bancone. — Mi è venuta improvvisamente una crisi morale. Ardo dal bisogno di sgravarmi la coscienza… di raccontare come lei ha ucciso due cittadini del pianeta e un turista marziano… come mi ha minacciato con la pistola, come mi ha costretto ad aiutarla a far sparire i cadaveri, come mi ha…

— È impazzito?

— Certo. Sono quasi fuori di me dalla fifa e dal rimorso, amico.

— Ma… lei non ha prove contro di me.

— Crede proprio? Io sono convinto che la mia storia suonerebbe molto più convincente della sua. Intanto, io so cosa bolle in pentola, e lei no. So tutto di lei, e lei non sa nulla di me. Per esempio… — e mi ricordò un paio di cosette che mi erano accadute in passato e che credevo ormai morte e sepolte, l’avrei giurato. Sì, va bene, m’ero prestato per un paio di recite un po’ porno, non esattamente adatte per famiglie… ma si deve pur mangiare, no? E la faccenda di Barbara… quella era un colpo basso: non potevo certo sapere che fosse minorenne. Quel famoso conto d’albergo, poi, va bene che far fesso un locandiere di Miami Beach viene punito dai tribunali locali come la rapina a mano armata nelle altre parti del mondo, ma sono atteggiamenti molto provinciali… se avessi avuto i soldi avrei pagato, ecco tutto. C’era infine quello spiacevole incidente a Seattle… Be’, insomma, voglio dire questo: Dak sapeva una quantità stupefacente di cose sul mio conto, e le interpretava tutte nel senso sbagliato. Però…

— Così — continuò lui — meglio andar subito dall’amico poliziotto e toglierci il peso dalla coscienza. Scommetto sette contro due chi finirà per primo in gattabuia.

Fu così che oltrepassammo il poliziotto senza fermarci. Era intento a parlare con un’impiegata dietro gli sportelli, e nessuno dei due ci degnò di uno sguardo. Dak si tolse di tasca due tessere su cui era stampigliato: CANCELLI PER LE RAMPE DI LANCIO — PERMESSO DI PASSAGGIO PER MANUTENZIONE — ORMEGGIO K 127, e le infilò nella fessura del monitor. Dopo avere esplorato i permessi con un fascio a scansione, la macchina rilasciò una pellicola che avvertiva di prendere un vagoncino per il livello superiore e di comporre il numero "King 127"; il cancello si aprì per lasciarci passare e poi si chiuse immediatamente alle nostre spalle, mentre una voce registrata ci avvertiva: "Attenzione al passaggio, prego, e rispettare gli avvisi di radiazione. La Compagnia non si assume responsabilità per gli incidenti che possono verificarsi all’interno dei cancelli".

Dak entrò nel vagoncino e formò un numero completamente diverso. Il veicolo girò su se stesso, s’immise su una rotaia, e partì in direzione del livello sotterraneo, anziché per quello superiore. La cosa non mi fece nessuna impressione. Ormai non m’interessava più niente.

Quando scendemmo, il vagoncino tornò automaticamente al punto di partenza. Davanti a me si innalzava una scala a pioli che spariva nel soffitto d’acciaio, sopra di noi. Dak mi toccò col gomito.

— Su, salga. — In cima alla scala si vedeva un portello, con appeso un cartello ammonitore: RADIAZIONI — PERICOLO — Massima tolleranza ottimale 13 secondi. I numeri erano scritti col gessetto. Mi fermai. Non m’interessa particolarmente aver figli, ma non sono talmente sciocco da assorbire una dose elevata di radiazioni per niente. Dak sghignazzò e disse: — Cosa fa, cerca le mutande di piombo? Avanti, salga, apra il portello in fretta e scappi su per la scaletta interna del razzo. Se non si ferma a grattarsi le pulci, può farcela risparmiando tre secondi.

Credo d’averne risparmiati cinque. Uscii per un paio di metri alla luce del sole, poi entrai in un lungo condotto all’interno del razzo. Ricordo d’aver fatto gli scalini a tre per volta.

Il razzo sembrava piuttosto piccolo. Per lo meno in sala comando non c’era spazio per muoversi; quanto al resto, non so dire, perché non ebbi mai modo di vederlo. Fino a quel momento, le uniche astronavi che avessi mai visto dall’interno erano i traghetti lunari Evangeline e la sua gemella Gabriel, in quell’anno disgraziato in cui avevo accettato imprudentemente un contratto per la Luna, in società con un impresario. Il mio socio era convinto che lassù, con la forza di gravità ridotta a un sesto, uno spettacolo di giochi di prestigio e di acrobazie potesse dare risultati migliori. Il ragionamento era abbastanza giusto, ma non avevamo pensato che occorre un lungo periodo di prove per acclimatarsi alla diminuzione di gravità… risultato: tornai sulla Terra col foglio di via e fui costretto a lasciare sulla Luna tutto il guardaroba.

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