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Chi governasse, non lo so. Probabilmente i sottosegretari anziani. Ogni mattina mi trovavo sullo scrittoio un mucchio di carte su cui tracciavo la pesante firma di Bonforte; poi veniva Penny e le portava via. Non ebbi mai il tempo di leggerne una. La mole stessa della macchina imperiale mi spaventava. Una volta Penny mi accompagnò a una riunione che si svolgeva fuori degli uffici, e mi fece attraversare gli Archivi di Stato per arrivare al più presto al luogo stabilito. Chilometri e chilometri di schedari, ciascuno pieno zeppo di microfilm, tutti serviti da un sistema automatico di trasportatori a nastro, in modo che gli impiegati non perdessero tutta la giornata a correre qua e là per prendere una scheda.

Penny affermò di avermene mostrato solo una piccola parte. Tutto il complesso degli schedali occupava una caverna grande come la sala riunioni della Grande Assemblea. Fui contento che governare non fosse la mia professione e che costituisse soltanto, per così dire, un hobby passeggero.

Ricevere gente era una seccatura inevitabile; inoltre risultava in gran parte inutile perché o Rog, o Bonforte tramite Rog, prendevano tutte le decisioni. La mia vera occupazione consisteva nel pronunciare i discorsi elettorali. Avevamo sparso la voce che il medico, temendo che il mio cuore fosse rimasto un po’ indebolito a causa della "infezione virale", m’avesse consigliato di restare nell’ambiente lunare, dove la forza di gravità era minore, per tutta la durata della campagna elettorale. Non osavo infatti farmi vedere sulla Terra, né tanto meno rischiare una puntata su Venere. L’aiuto dello schedario sarebbe risultato insufficiente se avessi dovuto mescolarmi alla folla, per non dire del pericolo sempre presente costituito dalle squadre di sicari degli Azionisti… Nessuno di noi, e io meno di tutti, osava pensare cosa mai avrei potuto raccontare, dopo una piccola iniezione di neodexocaina nei lobi frontali.

Intanto Quiroga stava visitando tutti i continenti della Terra; le trasmissioni stereo lo mostravano di persona, sul podio, davanti alla folla. Ma la cosa non sembrava dare alcuna preoccupazione a Rog Clifton.

Alzava le spalle e diceva: — Faccia pure. Comparendo di persona nel corso di manifestazioni propagandistiche non si ottengono voti nuovi. Serve solo a stancare l’oratore: a quel tipo di raduni partecipano solo i fedelissimi.

Speravo che parlasse con cognizione di causa. Quella campagna elettorale era piuttosto breve: correvano solo sei settimane dal giorno in cui Quiroga s’era dimesso al giorno che egli stesso, prima di dimettersi, aveva fissato le elezioni generali. In quel periodo io parlai quasi tutti i giorni, sia in presa diretta per la rete imperiale, nel tempo concesso ufficialmente e suddiviso in parti uguali tra Coalizione espansionista e Partito dell’umanità, sia registrando discorsi che venivano poi spediti col traghetto per essere trasmessi a determinati gruppi di ascoltatori. Avevamo adottato un metodo fisso: mi arrivava una bozza (probabilmente scritta da Bill, anche se non ebbi più occasione di vederlo), e io la elaboravo. Rog prendeva poi la bozza rivista e la portava via; di solito, quando mi veniva riportata, era pienamente approvata, ma ogni tanto c’era anche qualche correzione scritta di pugno da Bonforte. Ora la sua calligrafia era divenuta talmente incerta e pesante da risultare quasi incomprensibile.

Non mi permisi mai di modificare le parti da lui corrette, anche se spesso me lo concessi sul resto… quando si comincia a parlare, spesso si scopre che c’è un modo migliore, più vivace, di dire le stesse cose. Cominciai anche a rendermi conto della natura delle correzioni di Bonforte; quasi sempre si trattava dell’eliminazione di qualche aggettivo qualificativo, come per dirmi: "Cerca d’essere più brusco, più reciso: se non gli va, cacciaglielo giù con la forza!".

Dopo qualche tempo, le correzioni si fecero sempre più rare. Stavo imparando.

Eppure continuavo a non vederlo. Sentivo che non avrei più potuto impersonarlo con la stessa disinvoltura se l’avessi visto sul suo letto di malato. Del resto, tra i suoi intimi non ero l’unico a essere escluso dalla sua camera. Capek aveva proibito anche a Penny di varcare quella soglia… per il suo bene. Allora però ignoravo tale particolare. In realtà m’ero accorto che Penny, da quando eravamo a New Batavia, si mostrava distratta, irritabile, nervosa. Aveva due occhi cerchiati come quelli d’un tasso… tutte cose che non mancavo di notare, ma che attribuivo alla tensione della campagna elettorale, unitamente alla preoccupazione per la salute di Bonforte. Avevo ragione solo in parte. Capek, accortosi anche lui delle condizioni di Penny, intervenne, sottoponendola a una leggera trance ipnotica, nel corso della quale le fece molte domande. Alla fine le proibì completamente l’accesso alla camera di Bonforte fin quando io non avessi terminato la mia opera e non fossi stato rispedito via.

Infatti la poverina era giunta sull’orlo della follia a furia di passare dal capezzale dell’uomo che amava senza speranza al suo posto di lavoro accanto a un uomo che gli assomigliava fisicamente in tutto e per tutto, che parlava con la stessa voce, ma che godeva di una salute di ferro. Credo che Penny stesse cominciando a odiarmi.

Il caro professor Capek scovò le radici del male, la aiutò con delle suggestioni postipnotiche tranquillanti e, dopo la cura, la tenne lontana dalla stanza del malato. Naturalmente allora non venni informato di tutto ciò; non erano cose che mi riguardassero. Ma Penny si ristabilì e ritornò quella di prima: la segretaria graziosa, cordiale, affabile, efficiente fino all’inverosimile.

E questo per me contò molto. Lo confesso: almeno due volte, se non fosse stato per Penny, me ne sarei fuggito di gran carriera da quell’incredibile corsa nei sacchi.

C’era un solo tipo di riunioni cui dovevo assolutamente presenziare, cioè quelle del Comitato Direttivo della campagna elettorale. Poiché il Partito espansionista non aveva la maggioranza assoluta, essendo soltanto la frazione più ampia di una coalizione di diversi partiti tenuti insieme dalla guida e dalla personalità di John Joseph Bonforte, io dovevo presentarmi al posto suo davanti a quelle primedonne e dar loro lo zuccherino che ne calmasse le bizze. Mi fornivano istruzioni meticolosissime e Rog sedeva sempre al mio fianco per suggerirmi i giusti passi da fare nel caso mostrassi esitazioni. Ma non potevo assolutamente delegare un altro al posto mio.

Circa due settimane prima della data delle elezioni, eravamo attesi a un incontro per discutere l’assegnazione dei seggi "sicuri". La coalizione disponeva sempre di trenta o quaranta seggi in cui risultava vincitrice. Quei seggi potevano venir usati o per conferire a qualcuno i requisiti indispensabili a una nomina ministeriale, o per fornire a qualche personalità un segretario politico (una persona come Penny era molto più utile se era pienamente qualificata: poteva andare e venire per la sala dell’Assemblea, aveva il diritto di partecipare alle riunioni ristrette), o per altri motivi di partito. Lo stesso Bonforte era candidato in un seggio "sicuro": questo gli evitava di dover scendere in piazza a svolgere una campagna elettorale personale. Anche Clifton proveniva da uno di quei seggi. Dak ne avrebbe potuto avere uno se ne avesse avuto bisogno, ma era stato eletto all’unanimità dai suoi colleghi di corporazione. Una volta Rog aveva detto perfino a me che se fossi voluto ritornare alla politica sotto il mio vero nome, bastava una parola e m’avrebbe messo nella lista successiva.

Alcuni dei seggi "sicuri" venivano sempre riservati a funzionali di partito "rassegnatali", vale a dire disposti a rassegnare subito le dimissioni, se fosse stato necessario per far entrare nella Grande Assemblea, mediante un’elezione suppletiva, qualcuno che dovesse far parte del Governo, o simili.

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