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— Sì… ma supponiamo che qualche idiota s’impunti e faccia delle obiezioni?

— Non s’impunterà nessuno, stia tranquillo. Sì, se s’impuntasse potrebbe provocare una crisi costituzionale, ma nessuno lo farà.

Restammo in silenzio per qualche istante. Dak non sembrava più ansioso d’andarsene.

— Dak — dissi — pensa che le cose andrebbero più lisce se mi facessi vedere e se pronunciassi io il discorso?

— Come? Credevo che la cosa fosse già stata discussa. È stato lei stesso a dire che è troppo pericoloso comparire ancora in pubblico, salvo qualche emergenza tra la vita e la morte. Del resto, non le do torto. C’è il vecchio detto della gatta e del lardo…

— Sì, ma questa volta, mi pare, si tratta solo d’una sfilata in passerella, no? Battute fisse come quelle d’un copione? O c’è la possibilità di qualche colpo di scena? Che abbiano in serbo qualche sorpresa che riuscirebbe a mettermi nell’imbarazzo?

— Be’, no. Di solito, in queste circostanze, dopo il discorso si usa tenere una conferenza stampa, ma si potrebbe evitarla con la scusa della sua recente malattia. Potremmo scivolare di soppiatto per il tunnel di sicurezza, e così lei potrebbe evitare i giornalisti. — Poi aggiunse, con un sorriso storto: — Naturalmente c’è sempre il pericolo che qualche malintenzionato riesca a intrufolarsi con la pistola nella galleria dei visitatori… l’onorevole Bonforte la chiamava "il tiro al bersaglio", dopo essere stato ferito da un colpo sparato da lì.

La gamba mi diede una fitta. — Ha intenzione di spaventarmi per non farmi andare?

— No.

— Be’, allora ha scelto uno strano modo per farmi coraggio. Dak, me lo dica sinceramente: lei desidera che io parli domani all’Assemblea, oppure no?

— Certo che lo desidero! Perché diavolo crede che sia venuto a trovarla qui, con tutto il da fare che ho? Solo per fare due chiacchiere?

Il Presidente pro tempore picchiò il martelletto. Il Cancelliere elevò a Dio un’evocazione in cui s’evitava accuratamente ogni differenza tra una religione e l’altra, e tutti fecero silenzio. I seggi erano occupati solo per metà, ma la galleria era stipata di turisti.

Gli altoparlanti ripeterono amplificati i colpi picchiati alla porta come voleva la tradizione; il Cerimoniere indicò la porta con la mazza. Per tre volte l’imperatore ordinò d’essere ammesso, e per tre volte gli fu detto di no. Poi implorò che gli venisse concesso quel privilegio, e l’Assemblea glielo concesse per acclamazione. Restammo tutti sull’attenti mentre Guglielmo entrava e prendeva posto al suo seggio, dietro al banco del Presidente. Era in uniforme d’Ammiraglio Supremo e non aveva scorta, com’era prescritto, perché la sua scorta era costituita dal Presidente e dal Cerimoniere.

Io m’infilai la verga sotto il braccio, mi alzai dal mio posto nel primo banco e, rivolgendomi al Presidente come se non fosse presente il sovrano, presi la parola. Il discorso che pronunciai non fu quello che Corpsman aveva scritto: quello se l’era ingoiato l’oubliette non appena gli ebbi dato un’occhiata. Bill l’aveva fatto diventare una pura e semplice propaganda elettorale e non era né il momento né il luogo per pronunciare un discorso di quel tipo.

Il mio fu breve, obiettivo, rubacchiato direttamente dagli scritti scelti di Bonforte: la parafrasi d’un discorso da lui tenuto quando aveva formato un precedente Governo provvisorio. Affermavo la mia devozione al benessere generale e alla ricchezza collettiva, esortavo tutti ad amarsi reciprocamente, proprio come noi bravi democratici amavamo il sovrano e lui a sua volta ci amava. Era una specie di lirica a versi sciolti, lunga tre o quattro pagine, e se mi distaccai un poco dal precedente discorso di Bonforte fu solo per ripetere le sue idee con parole mie.

Dovettero imporre il silenzio ai visitatori.

Rog si alzò per proporre che i nomi da me citati come facenti parte del Governo venissero confermati. Ci fu l’approvazione, nessuna obiezione, e il Cancelliere proclamò l’unanimità. Mentre avanzavo verso il banco del Presidente, accompagnato da un membro del mio partito e da uno dell’opposizione, potevo scorgere gli appartenenti alla Grande Assemblea mentre davano un’occhiata clandestina all’orologio per vedere se ce l’avrebbero ancora fatta a prendere il traghetto di mezzogiorno.

Poi giurai fedeltà al sovrano, entro i limiti costituzionali e sotto di essi, di difendere e di mantenere i diritti e i privilegi della Grande Assemblea, di proteggere la libertà dei cittadini dell’Impero, dovunque essi fossero e, tra una cosa e l’altra, anche d’eseguire il mio compito di Primo Ministro di Sua Maestà. Una volta il Cancelliere si sbagliò nel formulare le domande e io lo corressi.

Avevo l’impressione di prendermela con calma, come se si fosse trattato del pistolotto iniziale prima d’una rappresentazione… e mi accorsi d’avere le lacrime agli occhi, tanto da non riuscire quasi più a vedere. Quando ebbi terminato, Guglielmo mi disse, senza nessun tono particolare: — È stata una scena memorabile, Joseph.

Non seppi mai se stesse parlando a me o al suo vecchio amico, né la cosa m’importò. Non mi asciugai gli occhi; lasciai che le lacrime mi scivolassero giù per le guance mentre mi voltavo verso l’Assemblea. Attesi che il re fosse uscito, poi chiesi un aggiornamento della seduta.

Quel pomeriggio la Diana, Ltd., dovette far partire tre traghetti supplementari. New Batavia era deserta; rimanevano la Corte e un milione circa di panettieri, pizzicagnoli e impiegati dello Stato, oltre a un Governo ridotto all’essenziale.

Nei giorni che seguirono, poiché ormai il supposto "raffreddore" era guarito ed ero apparso in pubblico nella sala della Grande Assemblea, non c’era più motivo perché continuassi a rimanere nascosto. Come presunto Primo Ministro, non potevo evitare di farmi vedere senza suscitare curiosità e commenti. Come capo nominale d’un partito che s’accingeva a dare inizio a una campagna elettorale, dovevo incontrare gente, almeno qualche persona importante. Così feci quello che dovevo fare, e intanto ricevevo ogni giorno un rapporto sui progressi di Bonforte che s’avviava verso la guarigione definitiva. Continuava a migliorare, seppur lentamente; Capek diceva che era possibile, in caso di assoluta necessità, farlo apparire in pubblico in un qualsiasi momento, ma aggiungeva che non era ancora consigliabile; aveva perso almeno una decina di chili e non era ritornato completamente padrone della mobilità e della coordinazione.

Rog faceva l’impossibile per tenerci tutt’e due lontani dalla gente. L’onorevole Bonforte sapeva ormai che stavano usando una controfigura al posto suo e, dopo un primo accesso d’indignazione, s’era arreso di fronte alla necessità, convenendo che non c’era altro da fare. Rog dava le direttive per la campagna elettorale, consultandosi con Bonforte solo per questioni d’alta politica; riferiva poi a me le risposte perché le rendessi di pubblico dominio, se era necessario.

Ma l’isolamento in cui teneva me era quasi altrettanto pressante. Era difficile farmi visita quanto farsi ricevere da un grande impresario teatrale. I miei uffici erano scavati nella roccia al di là della residenza del capo dell’opposizione (non ci eravamo trasferiti nell’abitazione, molto più sfarzosa, del Primo Ministro, anche se la cosa sarebbe stata perfettamente legale: durante un Governo provvisorio non lo si faceva mai, semplicemente); i miei uffici si sarebbero potuti raggiungere dal retro, passando direttamente dal nostro salotto interno, invece tutti passavano dall’ingresso ufficiale e prima d’arrivare a me dovevano superare almeno cinque posti di controllo, eccetto pochissimi privilegiati che venivano introdotti direttamente da Rog per una galleria laterale: prima entravano nell’ufficio di Penny, poi passavano nel mio.

La disposizione serviva più che altro a guadagnare tempo, in modo che, mentre i miei visitatori arrivavano, io potessi studiare la scheda Farley di ciascuno di essi. Inoltre potevo continuare a consultarla anche quando il visitatore era con me, in quanto avevo un visore inserito nella scrivania, visibile soltanto a chi stava seduto alla mia poltrona. Potevo anche spegnerlo istantaneamente se il visitatore si alzava e incominciava a passeggiare per la stanza. Quel visore serviva anche ad altri usi. Ogni tanto, Rog dava a una persona il trattamento speciale, cioè lo presentava a me e poi ci lasciava soli. Però Rog si fermava nell’ufficio di Penny e mi lasciava un biglietto che mi veniva poi trasmesso per mezzo del visore. Piccoli suggerimenti come: "Baci e abbracci, ma niente promesse", oppure: "Tutto quel che gli preme è un invito a Corte per la moglie; prometterglielo e poi mandarlo via", o ancora: "Attento con questo. Appartiene a una circoscrizione ’ballerina’ e lui è più furbo di quel che sembra. Passalo a me e cercherò di contrattare".

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