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Stavo imparando il discorso nel quale dichiaravo di accettare di diventar membro del nido di Kkkah: un discorso non molto diverso, nello spirito, da quello con cui un giovane ebreo ortodosso accetta le responsabilità della vita d’adulto, e altrettanto fisso e invariabile quanto il soliloquio d’Amleto. Lo avevo pronunciato ad alta voce, completo di tutte le inflessioni e di tutti i tic di Bonforte. Giunto alla fine, domandai a Penny: — Cosa gliene pare?

— Piuttosto bene, direi — mi rispose, serissima.

— Grazie, Ricciolina — risposi, usando un’espressione che avevo spesso sentito pronunciare da Bonforte, ascoltando i nastri magnetici su cui erano registrati i suoi colloqui con Penny. Era così infatti che la chiamava quand’era in vena di familiarità, e del resto si trattava di un appellativo che calzava a pennello sia a lei che al personaggio di Bonforte.

— Non osi più chiamarmi così!

Le sbarrai in faccia due occhi sinceramente stupefatti, e risposi, sempre immedesimato nel personaggio: — Ma come, Penny, bambina mia…

— E non osi più chiamarmi neanche così! Lei… imitazione! Ciarlatano!… Attore! - balzò in piedi e corse via più lontano che poteva (vale a dire fino alla porta). Rimase lì accanto, voltata dall’altra parte, col viso nascosto tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.

Io feci uno sforzo tremendo per districarmi dalla parte che stavo recitando, trassi un profondo respiro, lasciai riaffiorare la mia vera faccia ed esclamai con la mia voce naturale: — Signorina Russell!

Lei smise di piangere, si volse a guardarmi, spalancò la bocca. — Torni qui al suo posto e si sieda — aggiunsi ancora, sempre con la mia voce.

Pensavo che si sarebbe rifiutata di farlo, ma parve ripensarci e ritornò lentamente a sedersi, con le braccia conserte ma con sul viso un’espressione da bambina che tiene il broncio.

Lasciai trascorrere un istante di silenzio, poi ripresi a parlare. — Certo, signorina Russell, sono un attore. Le pare che sia un buon motivo per insultarmi?

Lei si limitò a guardarmi di traverso.

— Essendo un attore, io sono qui per svolgere un lavoro attinente alla mia professione, e il motivo lo sa benissimo anche lei. E lei sa anche che me l’hanno fatto accettare con un inganno: se fossi stato al corrente della verità non l’avrei accettato a occhi chiusi. E neanche a occhi aperti, neppure nei momenti più grigi della mia carriera. Questo lavoro mi garba meno di quanto garbi a lei, perché, nonostante l’ottimismo del capitano Broadbent, non sono affatto sicuro che riuscirò a uscirne con la pelle intatta, e ci tengo molto alla mia pelle, sa? È l’unica che ho. E credo anche di sapere il motivo per cui lei prova difficoltà ad accettare la mia presenza… Mi dica: le pare che sia un motivo sufficiente per rendere il mio lavoro più difficile di quanto già non lo sia?

Lei borbottò qualcosa. — Parli chiaro! — gridai spazientito.

— Non è onesto! È indecente!

— Sono d’accordo — sospirai — e aggiungerò che è anche impossibile, specie se mi manca l’appoggio incondizionato degli altri personaggi del dramma. Perciò mi chiami il capitano Broadbent, gli dica di venire qui. Gli riferirò che non se ne fa niente.

— Oh, no, no! — si affrettò a rispondere Penny. — Non possiamo farlo!

— Perché no? Meglio smettere ora che andare in scena e far fiasco. Non posso assolutamente recitare nella presente situazione, come spero vorrà convenire anche lei.

— Ma… ma… dobbiamo!… È necessario…

— Perché è necessario, signorina Russell? Per motivi politici? Personalmente non ho mai provato il minimo interesse per la politica, e non credo neppure che la politica abbia grande interesse per lei. E allora perché mai dovremmo farlo?

— Perché… perché… lui… — balbettò, senza riuscire a dire altro e rimettendosi a piangere.

Mi alzai, mi avvicinai a lei e le misi una mano sulla spalla. — Lo so. Perché se noi non lo facciamo, una cosa per cui lui ha lottato per anni andrà a catafascio. Perché lui non può farlo e gli amici stanno cercando di tenere tutto sotto silenzio e di farlo al posto suo. Perché gli amici gli sono devoti. Perché lei gli è devota… Benissimo, per tutti questi bei motivi qualcun altro deve recitare la sua parte. Lei lo sa, si rende conto che non c’è altra soluzione possibile; pure le ripugna di vedere un altro al posto che gli spetta di diritto. E inoltre, lei è fuori di sé per il dolore e la preoccupazione. Non è così?

— Sì — mormorò lei, con un filo di voce.

Io le strinsi il mento obbligandola a sollevare il viso. — So perché le dà tanto fastidio veder qui me, al posto suo. Lei lo ama. Però si ficchi bene in mente che io sto lavorando per lui meglio che posso. Accidenti! Perché mi vuole rendere dieci volte più difficile il lavoro trattandomi come un verme?

Mi guardò interdetta e per un attimo pensai che mi avrebbe preso a schiaffi. Invece, quando parlò, disse con voce rotta: — Mi scusi per prima. Mi dispiace molto. Non succederà più.

Le lasciai il mento e dissi con vivacità: — Bene, allora torniamo al lavoro.

Lei però non si mosse. — Mi perdona? — domandò.

— Eh? Non c’è niente da perdonare, Penny. Lei ha detto quello che ha detto perché lo ama e perché è preoccupata per lui. Ma adesso sbrighiamoci. Voglio raggiungere la perfezione, e mancano poche ore all’arrivo. — Rientrai immediatamente nella parte di Bonforte.

Lei inserì una nuova bobina nel proiettore. Osservai con attenzione le immagini dal principio alla fine, poi ripetei il discorso della cerimonia con l’audio spento e con solo il video in funzione, cercando di far coincidere la mia voce (cioè, voglio dire, la sua voce) con i gesti e con le espressioni delle immagini stereo. Penny continuava a guardare da me alle immagini, con espressione stupita. Quando il nastro fu terminato e io stesso ebbi spento il proiettore, domandai: — Cosa gliene pare?

— Perfetto!

Sorrisi come lui. — Grazie, Ricciolina.

— Non c’è di che… "onorevole Bonforte".

Due ore dopo giungevamo all’appuntamento con la Passa al primo turno!

Dak accompagnò Roger Clifton e Bill Corpsman nella mia cabina, appena furono saliti a bordo, dopo il trasbordo dalla loro astronave. Li conoscevo per averli visti in fotografia, e alzandomi li salutai con un: — Salve, Rogi Felice di vedere anche lei, Bill! — cordiale ma non enfatico; quella gente operava su scala diversa dalle persone normali, e per loro un viaggio di corsa fino alla Terra e ritorno era un’assenza di pochi giorni, niente di più. Feci qualche passo avanti, zoppicando leggermente, e porsi loro la mano da stringere. In quel momento la nave era sotto una leggera accelerazione per spostarsi su un’orbita più vicina al pianeta di quella descritta dalla Passa al primo turno!

Clifton mi lanciò una breve occhiata, poi decise di stare al gioco. Si tolse il sigaro di bocca, mi strinse la mano, e disse tranquillamente: — Felice di riaverla qui, Capo. — Era un ometto calvo, di mezz’età, con un che di curialesco nei modi e con l’aspetto di un buon bluffatore al tavolo di poker.

— Successo niente di speciale mentre ero via?

— No. Tutta normale amministrazione. Ho passato gli incartamenti a Penny.

— Ottimo. — Mi volsi a tendere la mano a Bill Corpsman che, invece di ricambiare la stretta, si mise i pugni sui fianchi, mi diede una lunga occhiata, fece un fischio ammirato ed esclamò: — Stupefacente! Incomincio a credere che potremo farcela. — Mi squadrò da capo a piedi, poi disse ancora: — Si volti, Smythe. Cammini. Voglio vedere la sua andatura.

Scoprii che mi sentivo davvero seccato, come lo sarebbe stato lo stesso Bonforte se qualcuno si fosse permesso di trattarlo con tale impertinenza e, naturalmente, mi si lesse in faccia quello che provavo. Dak si affrettò a dare di gomito a Corpsman e a dire: — Bill, dagli un taglio. Ricorda com’eravamo d’accordo.

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