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Di quello che seguì, Gray capì ben poco, a parte la parola ge’vangene, prigioniero.

Poteva significare soltanto una cosa.

«Hanno catturato Monk…» bisbigliò, sentendosi raggelare. «Andiamo.» Dopo aver alleggerito la guardia del Taser, uscì dalla stanza.

Ritornarono verso le scale. Gray sussurrò il suo piano a Fiona mentre scendevano di corsa fino all’ingresso principale. L’atrio davanti a loro era sgombro.

Attraversarono il pavimento lucido, con l’eco dei loro passi che risuonava tutt’attorno. Le pareti erano ornate da trofei imbalsamati: la testa di un rinoceronte nero, specie in via d’estinzione, un imponente leone, con la criniera mangiata dalle falene, una fila di antilopi con corna di diverso tipo.

Quando raggiunsero l’ingresso, Fiona estrasse dalla tasca del grembiule uno spolverino di piume, che faceva parte del suo travestimento, e si portò a un lato della porta. Fucile alla mano, Gray si appostò dall’altra parte.

Non dovettero aspettare a lungo: fecero appena in tempo a mettersi in posizione.

Quante guardie avrebbero accompagnato Monk?

Almeno era vivo.

La saracinesca di metallo dell’entrata principale cominciò a sollevarsi rumorosamente. Gray si chinò per contare le gambe. Due guardie accompagnavano un prigioniero con la tuta bianca.

Gray si fece vedere, mentre la saracinesca finiva la sua corsa.

Le guardie lo scambiarono per una sentinella che sorvegliava la porta. Entrarono col prigioniero al seguito. Nessuno dei due notò che Gray aveva in mano un Taser, né che Fiona si avvicinava dall’altro lato.

L’attacco si concluse in un attimo.

Le due guardie si contorcevano sul tappeto, coi talloni che battevano a terra. Gray diede un calcio in testa a ciascuno, forse più forte di quanto avrebbe dovuto, ma la rabbia aveva preso il sopravvento.

Il prigioniero non era Monk.

«Chi è lei?» chiese Gray, mentre trascinava rapidamente la prima guardia verso un ripostiglio lì vicino.

La donna canuta usò il braccio libero per aiutare Fiona con la seconda guardia. Era più forte di quanto non sembrasse. Aveva il braccio sinistro bendato e appeso al collo con una fascia. Il suo profilo sinistro era devastato da brutti graffi, suturati e non ancora cicatrizzati.

Nonostante le recenti ferite, si rivolse a Gray con uno sguardo intenso e determinato. «Sono la dottoressa Marcia Fairfield.»

ore 12.25

La Jeep procedeva lentamente lungo il sentiero.

Al volante, il sovrintendente Gerald Kellog si asciugava la fronte sudata. Teneva tra le gambe una bottiglia di Birkenhead Premium Lager.

Nonostante la mattinata frenetica, Kellog non voleva rinunciare alle sue abitudini. D’altro canto, non c’era molto che potesse fare. Gli addetti alla sicurezza della tenuta dei Waalenberg l’avevano informato sommariamente degli eventi: una fuga. Il sovrintendente aveva già avvisato i ranger del parco e appostato uomini a tutti i cancelli. Aveva distribuito fotografie, faxate dalla tenuta Waalenberg. Bracconieri, armati e pericolosi. Quella era la copertura.

Finché non veniva comunicato un avvistamento, Kellog non aveva motivo per astenersi dalla sua consueta pausa pranzo di due ore, a casa. Il martedì era il giorno dell’arrosto di pernice con patate dolci. La Jeep attraversò la griglia di contenimento del bestiame ed entrò nel viale, fiancheggiato da basse siepi. In fondo c’era una casa a due piani, con modanature in stile coloniale, circondata da un terreno di proprietà di mezzo ettaro, una delle prerogative della posizione di sovrintendente. Uno staff di dieci persone si occupava della proprietà e del suo unico occupante. Il sovrintendente non aveva fretta di sposarsi.

Perché comprare una vacca quando si può avere il latte gratis?

In più, lui preferiva i frutti non ancora maturi.

Aveva una nuova ragazza in casa, la piccola Aina, un’undicenne nigeriana, nera come la pece, giusto come piacevano a lui, perché nascondevano meglio le botte. Non che dovesse rendere conto a qualcuno. Aveva un servitore swazi, Mxali, un bruto reclutato in prigione, che gestiva la casa con disciplina e terrore. Tutti i problemi venivano risolti rapidamente, quando era necessario. E i Waalenberg erano ben felici di aiutarlo a far scomparire eventuali seccatori. Che cosa ne fosse di loro dopo che venivano scaricati dall’elicottero alla tenuta Waalenberg, Gerald preferiva non saperlo. Ma aveva sentito qualche voce in proposito.

Sebbene fosse un caldo mezzogiorno, rabbrividì.

Meglio non fare troppe domande.

Parcheggiò l’auto all’ombra di un’acacia, scese e percorse a grandi passi il sentiero inghiaiato che conduceva alla porta laterale, da cui si accedeva alla cucina. Un paio di giardinieri stavano zappando un’aiuola. Quando Gerald passò, tennero gli occhi bassi, come era stato loro insegnato.

Il profumo dell’arrosto e dell’aglio gli stuzzicarono l’appetito, guidandolo su per i tre gradini di legno, fino alla porta a zanzariera aperta. Quando entrò in cucina, gli brontolava già lo stomaco.

Sulla sinistra, vide il cuoco inginocchiato sul pavimento, con la testa infilata nel forno. Kellog guardò perplesso quel quadretto.

Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che non era il cuoco. «Mxali…»

Kellog si accorse finalmente dell’odore di carne bruciata nascosto dal profumo dell’aglio. Qualcosa sporgeva dal braccio dell’uomo: una freccetta piumata. L’arma preferita di Mxali.

Qualcosa era andato terribilmente storto.

Kellog fece un passo indietro, voltandosi verso la porta.

I due giardinieri avevano lasciato cadere le zappe e tenevano ciascuno un fucile puntato al suo pancione enorme. Non era insolito che piccole bande di predoni, immondizia delle township nere, saccheggiassero le fattorie e le case più isolate. Kellog alzò le mani, mentre gli si accapponava la pelle dal terrore.

Lo scricchiolio di una tavola lo fece girare dall’altra parte.

Un’ombra emerse dall’oscurità della stanza accanto.

Kellog rimase senza fiato quando riconobbe l’intruso.

Non era un predone, ma molto peggio: un fantasma.

«Khamisi…»

ore 12.30

«Allora, che cos’ha esattamente?» chiese Monk, indicando col pollice una delle capanne vicine. Painter vi si era appartato col telefono satellitare della dottoressa Kane, per conferire con Logan Gregory.

Monk era seduto su un tronco assieme alla dottoressa Lisa Cummings, sotto la veranda di un’altra capanna. Per quanto fosse coperta di polvere e avesse un accenno di occhiaie, la dottoressa era una bella donna.

«Le sue cellule si stanno snaturando: si dissolvono dall’interno. Così dice Anna Sporrenberg, che ha studiato a lungo gli effetti deleteri delle radiazioni della Campana. Causa un arresto delle funzioni di molteplici organi. Anche suo fratello Gunther soffre di una patologia cronica di questo tipo, ma nel suo caso il tasso di degenerazione è rallentato da un sistema immunitario più potente. Anna e Painter, esposti da adulti a un’overdose di radiazioni, non hanno una simile protezione.» Entrò nei dettagli, sapendo che Monk aveva alle spalle una formazione medica. Riduzione delle piastrine, aumento dei livelli di bilirubina, edema, dolori muscolari con contratture del collo e delle spalle, infarti ossei, epatosplenomegalia, soffio al cuore e strane calcificazioni delle estremità distali e dell’umor vitreo degli occhi.

Quel che contava, però, era una sola domanda. «Quanto tempo gli rimane?»

Lisa sospirò, guardando la capanna in cui Painter era svanito. «Non più di un giorno. Anche se si trovasse una cura oggi, temo che ci potrebbero essere danni permanenti.»

«Ha notato come biascicava… come si mangiava le parole? Sono i farmaci, oppure…»

Lisa si voltò brevemente verso di lui, con uno sguardo più sofferente. «Non sono soltanto i farmaci.»

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