Paula era dello stesso parere. «La società era il gruppo che appoggiava le spedizioni di Himmler sull’Himalaya.»
«E, una volta che l’ebbe scoperto, per Baldric dev’essere stato facile infiltrare spie al Granitschloß.»
Anna era impallidita, ma non a causa della malattia. «Il bastardo ci ha usato! Per tutto questo tempo!»
Painter annuì. Baldric Waalenberg aveva orchestrato tutto quanto, manovrando le cose a distanza. Aveva lasciato che gli scienziati del Granitschloß, esperti della Campana, proseguissero le loro ricerche, ma allo stesso tempo le sue spie facevano filtrare le informazioni in Africa.
«In seguito, Baldric deve aver costruito la sua Campana», disse Painter, «sperimentando in segreto, producendo i suoi Sonnenkönige, affinandoli tramite le tecniche avanzate scoperte dai vostri scienziati. Era un’impostazione perfetta. Senza un’altra fonte di Xerum 525, il Granitschloß era vulnerabile, controllato da Baldric Waalenberg a vostra insaputa. In qualsiasi momento, poteva togliervi la terra sotto i piedi.»
«Ed è proprio quello che ha fatto», sbottò Anna.
«Ma perché?» chiese Paula. «Questa manovra segreta funzionava bene.»
Painter scrollò le spalle. «Forse perché il gruppo di Anna stava allontanandosi sempre più dall’ideale nazista di supremazia ariana.»
Anna si premette un palmo sulla fronte, come se così potesse proteggersi da ciò che stava scoprendo. «E alcuni nostri scienziati… davano a intendere di voler… uscire allo scoperto, unirsi alla comunità scientifica e divulgare le nostre ricerche.»
«Non penso che questo sia l’unico», replicò Painter. «C’è in ballo qualcosa di più grosso. Qualcosa che, d’un tratto, ha reso il Granitschloß obsoleto.»
«Credo che lei abbia ragione», convenne Paula. «Negli ultimi quattro mesi c’è stato un improvviso aumento delle attività alla tenuta. Qualcosa li ha messi in agitazione.»
«Devono aver fatto qualche importante progresso da soli», disse Anna, con un’espressione preoccupata.
Gunther intervenne, con la voce rauca, come se avesse un macigno in gola. «Genug!» Ne aveva avuto abbastanza e per la frustrazione faceva fatica a parlare inglese. «Il bastardo ha Campana… ha Xerum… noi troviamo, usiamo.» Fece un gesto alla sorella. «Basta parlare!»
Lisa si trovò pienamente d’accordo col bestione. «Dobbiamo trovare un modo per entrare.» E presto, aggiunse tra sé.
«Ci vorrebbe un esercito per assaltare la tenuta.» Painter si voltò verso Paula. «Possiamo aspettarci un aiuto dal governo sudafricano?»
«È escluso. I Waalenberg hanno corrotto troppe persone. Dovremo trovare un modo per infiltrarci in segreto.»
«Le foto satellitari non sono di grande aiuto», commentò Painter.
«Allora useremo tecnologie meno avanzate», replicò Paula, conducendoli alle Isuzu Trooper che li aspettavano. «Ho già qualcuno pronto sul campo.»
ore 06.28
Khamisi era disteso a terra. Sebbene fosse arrivata l’alba, i primi raggi del sole non facevano che gettare ombre ancora più profonde sul terreno della giungla. Indossava una mimetica e aveva in spalla la doppietta 465 Nitro Holland Holland Royal. In mano portava una tradizionale lancia corta zulù, una specie di zagaglia.
Dietro di lui c’erano altri due esploratori della tribù: Tau, il nipote dell’anziano che aveva salvato Khamisi dall’aggressione, e il suo migliore amico, Njongo. Anche loro portavano armi da fuoco e lance. Il loro abbigliamento era più tradizionale: fasce di pelliccia di lontra. Inoltre, avevano la pelle impiastricciata di vernice.
I tre avevano trascorso la notte setacciando la foresta attorno al palazzo, in cerca di una via che evitasse i sentieri sospesi tra le fronde. Avevano usato le piste degli animali selvatici, che s’inoltravano nel folto del sottobosco, e si erano spostati assieme a una piccola mandria di impala, nascondendosi nella loro ombra. Khamisi si era fermato in diversi punti per piazzare qualche sorpresa accanto ai cavi che, camuffati da piante rampicanti, collegavano al suolo i sentieri sospesi.
Una volta fatto il proprio dovere, si erano incamminati verso un punto in cui un ruscello scorreva sotto la recinzione della tenuta.
Un attimo prima, Khamisi aveva sentito quell’urlo selvaggio.
Uuh-iiii-uuuuu.
Il guardacaccia era rimasto pietrificato. Il ricordo di quel richiamo gli era rimasto impresso nelle ossa.
Ukufa.
Paula Kane aveva ragione. Secondo lei, le creature provenivano dalla tenuta dei Waalenberg. Non sapeva se fossero fuggite oppure se fossero lì apposta per aggredire Khamisi e la dottoressa Fairfield. In un caso o nell’altro, erano in libertà, a caccia.
Ma di chi?
Il richiamo proveniva da lontano, alla loro sinistra.
Non erano loro le prede. Quelle creature erano cacciatrici troppo abili, non avrebbero rivelato la loro presenza così presto. Qualcos’altro le aveva attirate, stuzzicando la loro sete di sangue.
Khamisi sentì un urlo in tedesco, un grido d’aiuto, tra i singhiozzi. Era più vicino.
Ancora terrorizzato dal richiamo bestiale, il guardacaccia avrebbe voluto scappare lontano, veloce. Era una reazione primordiale.
Alle sue spalle, Tua lo incitava a fare proprio quello, borbottando in zulù.
Khamisi, invece, si diresse verso il punto da cui proveniva il grido d’aiuto. Aveva già lasciato Marcia in preda a quelle creature. Ricordava il suo terrore, quando aveva aspettato l’alba immerso fino al collo nell’abbeveratoio. Non poteva ignorare quelle urla.
Khamisi rotolò sino a Tau e gli passò le mappe che aveva disegnato. «Torna all’accampamento e porta queste alla dottoressa Kane.»
«Fratello… no… vieni via.» Tau aveva gli occhi sgranati per il terrore. Suo nonno gli aveva raccontato dell’ukufa. Khamisi doveva riconoscere il coraggio di Tau e del suo amico: nessun altro si era offerto volontario per entrare nella tenuta. La superstizione era imperante.
Una volta di fronte alla realtà, Tau non aveva nessuna intenzione di rimanere e Khamisi non poteva biasimarlo. Ricordava il suo terrore, quando era con Marcia. Invece di resistere, era fuggito, era corso via, lasciando che la dottoressa fosse uccisa.
«Andate», ordinò Khamisi, indicando la recinzione con un cenno del capo. Le mappe dovevano essere consegnate.
I due giovani esitarono per un istante, poi si mossero, stando bassi, e scomparvero nella giungla. Khamisi non sentiva nemmeno i loro passi.
Calò un silenzio spaventoso, pesante e denso come la foresta stessa. Khamisi s’incamminò nella direzione da cui erano venute le urla, umane e non.
Dopo un minuto, proruppe un altro ululato, accompagnato da un volo di uccelli allarmati. Terminò in una serie di schiamazzi, simili a una risata stridula. Khamisi si fermò a riflettere, colpito da qualcosa di familiare in quell’ultimo, inquietante verso. Prima che potesse pensarci oltre, un singhiozzo sommesso lo fece trasalire. Khamisi usò la canna della doppietta per aprirsi un varco tra le fronde. Davanti a lui si apriva una piccola radura, dove un albero era caduto di recente, sgombrando una parte della foresta. Dallo spiraglio che si era aperto tra le chiome degli alberi, penetrava un raggio di sole, che faceva sembrare ancora più oscuro il resto della giungla.
All’altra estremità della radura, un movimento attirò la sua attenzione. Un ragazzo si stava sforzando di arrampicarsi da un ramo basso a uno più alto, ma non riusciva a trovare una buona presa con la mano destra. Anche da quella distanza, Khamisi vedeva la scia di sangue che colava lungo il braccio del ragazzo, inzuppandogli la manica, mentre tentava invano di aggrapparsi. D’un tratto, il giovane cadde in ginocchio, avvinghiandosi al tronco e cercando di nascondersi.
Poi anche il motivo dell’improvviso terrore del ragazzo divenne visibile.