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Anche quella stanza era circolare, ma non aveva finestre. Era illuminata dalla luce fioca di alcune lampade a muro. Dodici colonne di granito erano disposte lungo la circonferenza, a sostenere un soffitto a cupola. Al centro della cupola era stata dipinta una svastica rovesciata.

«Questa è la cripta del castello», spiegò Ulmstrom. «Notate il pozzo al centro della stanza. È lì che veniva bruciato, con un cerimoniale, il blasone degli ufficiali delle SS caduti.»

Gray aveva individuato subito il pozzo di pietra, posto direttamente sotto la svastica sul soffitto.

«Stando vicino al pozzo e guardando le pareti, si vedono le Menschrunen che vi sono raffigurate.»

Gray si avvicinò e seguì le istruzioni. Le rune erano state incise nelle pareti di pietra, in corrispondenza dei punti cardinali. Gray capì finalmente l’osservazione fatta da Ulmstrom poco prima: La presenza di questa runa ha senso soltanto considerando…

Le rune erano tutte rovesciate.

Totenrunen. Rune di morte.

Un forte clangore, identico a quello di poco prima, risuonò nella stanza. Ma, a differenza di prima, non c’era stato nessun blackout. Gray si girò, rendendosi conto dell’errore. La curiosità gli aveva fatto abbassare la guardia.

Il dottor Ulmstrom non si era mai allontanato dalla porta, poi era uscito e aveva fatto scattare la serratura. Parlando ad alta voce attraverso la spessa lastra di vetro, senza dubbio antiproiettile, disse: «Adesso capirete il vero significato della Totenrune».

Quindi ci fu uno schiocco sonoro. Le lampade si spensero. Senza finestre, la stanza piombò nell’assoluta oscurità.

Rimasero tutti in silenzio, scioccati. Poi sopraggiunse un nuovo suono: un sibilo feroce.

Ma non proveniva da un serpente.

Gray lo sentì sulla lingua.

Gas.

Himalaya,

ore 13.38

I tre elicotteri si allargarono a ventaglio per sferrare l’attacco.

Painter studiava i velivoli in avvicinamento con un binocolo. Si era slacciato la cintura di sicurezza ed era sgattaiolato sul sedile del copilota. Riconobbe i mezzi nemici: Eurocopter Tiger, elicotteri di peso medio, equipaggiati con gun pod e missili aria-aria.

«Avete qualche arma montata sull’elicottero?» chiese Painter.

«Nein.»

Azionando i pedali del timone, Gunther fece girare l’elicottero, allontanandosi dagli avversari. Poi piegò il muso in avanti, accelerando. La loro unica contromisura era l’agilità. L’A-Star, più leggero e non appesantito dagli armamenti, era più veloce e manovrabile. Ma anche quel vantaggio era limitato.

Painter sapeva dove stava andando Gunther. Aveva studiato a fondo le cartine della regione. Il confine con la Cina era a meno di cinquanta chilometri.

Se i loro aggressori non fossero riusciti a eliminarli, avrebbero fatto comunque la stessa fine per aver invaso lo spazio aereo cinese. Con le tensioni in corso tra il governo nepalese e i ribelli maoisti, il confine era sotto stretta sorveglianza. Erano tra l’incudine e il martello.

«Missile!» gridò Anna dal sedile posteriore, guardando indietro.

Ancora prima che finisse di parlare, una scia sibilante di fuoco e fumo li superò a sinistra, mancandoli di qualche metro appena. Il missile esplose contro un costone ghiacciato davanti a loro. Un grosso blocco di roccia si staccò e scivolò via.

Gunther inclinò l’elicottero su un fianco e accelerò, scansando la pioggia di macerie. Puntò verso il basso e s’infilò a tutta velocità tra due creste. Così erano temporaneamente fuori tiro.

«Proviamo ad atterrare e a scappare a piedi», propose Anna.

Painter scosse la testa, gridando per farsi sentire sopra il rumore del motore: «Conosco quei Tiger. Hanno gli infrarossi, la traccia del nostro calore corporeo ci smaschererebbe. Dopodiché non potremmo sfuggire ai loro proiettili».

«E allora che facciamo?»

Painter aveva ancora fitte terribili alla testa. Il suo campo visivo si era ridotto a un fascio sottilissimo.

Fu Lisa a rispondere, sporgendosi in avanti, con lo sguardo sulla bussola. «L’Everest.»

«Cosa?»

Indicò la bussola con un cenno del capo. «Stiamo puntando dritti sull’Everest. E se atterrassimo lì e ci perdessimo nella folla degli alpinisti?»

Painter rifletté su quel piano. Nascondersi in piena vista.

«La tormenta ha fatto ritardare le ascensioni», proseguì Lisa. «Quando sono venuta via c’erano circa duecento persone in attesa di salire, tra cui anche alcuni soldati nepalesi. Forse ce ne saranno ancora di più, dopo l’incendio al monastero.»

Lisa lanciò un’occhiata ad Anna. Painter interpretò la sua espressione: stavano lottando per sopravvivere accanto al nemico che aveva incendiato quel monastero. Ma adesso c’era un avversario più pericoloso che li minacciava. Se da una parte Anna aveva compiuto azioni imperdonabili, l’altra fazione l’aveva costretta ad agire, mettendo in moto la catena di eventi che li aveva condotti fin lì.

Painter sapeva che non sarebbe finita. Era soltanto l’inizio, un attacco simulato allo scopo di fuorviarli. Cera qualcosa di mostruoso in corso. Le parole di Anna gli echeggiarono nella testa dolorante: Dobbiamo fermarli.

«Con tutti i telefoni satellitari e le telecamere che trasmettono dal campo base, non oseranno attaccare», concluse Lisa.

«Speriamo», replicò Painter. «Altrimenti metteremo in pericolo molte vite.» Sapeva che il fratello di Lisa era al campo base.

Lei lo guardò. «Dobbiamo correre il rischio, è troppo importante.» Evidentemente era arrivata alla stessa conclusione cui era giunto anche lui un istante prima. «Bisogna che qualcuno sappia cosa sta succedendo.»

Painter si guardò attorno nell’abitacolo.

Anna indicò la parete che avevano di fronte. «Si fa prima a passare sopra la spalla dell’Everest per arrivare dall’altra parte, piuttosto che girarci attorno.»

«Perciò dirigiamo verso il campo base?» chiese Painter.

Erano tutti d’accordo.

Ma gli altri no.

Un elicottero superò la cresta rombando e passò sopra di loro, sfiorando i loro rotori coi pattini d’atterraggio. L’intruso sembrò sorpreso di ritrovarseli lì. Con un’improvvisa piroetta, il Tiger prese quota.

In ogni caso, li avevano scovati.

Painter pregò che gli altri due elicotteri fossero andati a cercarli più lontano, ma d’altra parte un Tiger bastava e avanzava.

Il disarmato A-Star s’infilò in un canalone più ampio, una conca piena di neve e ghiaccio. Non c’era riparo. Il pilota del Tiger reagì rapidamente, tuffandosi all’inseguimento.

Gunther accelerò e aumentò l’inclinazione delle pale, tentando uno sprint a tutta velocità. Forse avrebbero distanziato il più pesante Tiger, ma non i suoi missili. Come a confermarlo, il Tiger lanciato in picchiata mise in azione i gun pod, sputando fuoco e bucherellando la neve.

«Così non riuscirai mai a seminare quel bastardo!» gridò Painter, puntando il pollice verso l’alto. «Cambia direzione!»

Gunther gli lanciò un’occhiata alquanto perplessa.

«Lui è più pesante», spiegò Painter, gesticolando. «Noi possiamo salire a una quota più alta, dove non ci può seguire.»

Gunther annuì e tirò indietro il collettivo, trasformando il movimento da orizzontale a verticale. L’elicottero si scagliò verso il cielo.

Il Tiger fu sorpreso da quella manovra ed esitò un istante prima di seguirli, salendo a spirale.

Painter controllò l’altimetro. Il record mondiale di quota per un elicottero era stato raggiunto da un A-Star alleggerito, atterrato in cima all’Everest. Non c’era bisogno che salissero così in alto. Appesantito dagli armamenti, il Tiger cominciò a perdere colpi quando superarono la soglia dei seimila settecento metri. I rotori giravano inutilmente nell’aria rarefatta, rendendo difficile controllare imbardate e rollio e impossibile impostare una posizione d’attacco per lanciare i missili.

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