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Ma, secondo il loro capo sherpa, non era la giornata giusta.

«È solo una montagna di stronzate», proclamò il manager di un’azienda di articoli sportivi di Boston. Se ne stava a braccia conserte accanto al suo animale da carico, con indosso una tuta di piumino d’oca all’ultimo grido, che ricordava un po’ un piumone. «Più di seicento dollari al giorno per non muovere neanche le chiappe da qui. Ci stanno fregando. Non c’è neanche una nuvola in questo dannatissimo cielo…» Parlava sottovoce, come se volesse istigare una rivolta che non aveva nessuna intenzione di guidare in prima persona.

Lisa conosceva quel genere di individuo. Una personalità di tipo S: S come stronzo. Col senno di poi, forse non ci sarebbe dovuta andare a letto. Il solo ricordo la mise a disagio. Il rendez-vous era avvenuto negli Stati Uniti, dopo una riunione organizzativa allo Hyatt di Seattle e qualche cocktail di troppo a base di whisky. Boston Bob era stato soltanto un porto cui approdare durante una tempesta… non il primo e probabilmente nemmeno l’ultimo. Ma una cosa era certa: era un porto in cui non avrebbe mai più gettato l’ancora.

Lisa sospettava che quello fosse il motivo principale della persistente belligeranza di lui.

Si allontanò, augurandosi che suo fratello minore avesse la forza di placare il fermento. Josh era un alpinista con dieci anni di esperienza e aveva fatto in modo che Lisa potesse partecipare a una delle sue ascensioni sull’Everest. Guidava spedizioni di alpinisti in tutto il mondo almeno due volte all’anno.

Josh Cummings alzò una mano. Biondo e snello come la sorella, indossava un paio di jeans neri, infilati nelle ghette dei suoi scarponi Millet One Sport, e una maglia termica da escursione grigia.

Si schiarì la voce. «Taski ha scalato l’Everest dodici volte. Conosce la montagna e i suoi umori. Se dice che il tempo è troppo imprevedibile per procedere, vuol dire che passeremo un’altra giornata qui ad acclimatarci e a fare pratica. Per chi lo desiderasse, posso anche organizzare un’escursione in giornata alla foresta di rododendri nella valle Khumbu inferiore, con un paio di guide.»

Si alzò una mano nel gruppo. «Che ne dite di un’escursione in giornata all’hotel Everest View? Siamo accampati in queste maledette tende da sei giorni. Non mi dispiacerebbe un bagno caldo.»

La richiesta fu accolta da mormorii di consenso.

«Non so se sia davvero una buona idea», li ammonì Josh. «L’hotel è a una giornata intera di cammino e le stanze vengono riempite d’ossigeno, per evitare il mal d’altitudine. Potrebbe compromettere la vostra acclimatazione e ritardare l’ascensione.»

«Come se non fosse già abbastanza ritardata!» incalzò Boston Bob.

Josh lo ignorò. Lisa sapeva che suo fratello non si sarebbe lasciato indurre a fare una cosa così stupida, a rischiare un’ascensione in presenza di condizioni meteorologiche avverse. Anche se il cielo era sereno, sapeva che poteva cambiare da un momento all’altro. Era cresciuta sul mare, al largo della costa di Catalina, come Josh. Avevano imparato a leggere tutti i segnali, a prescindere dall’assenza di nuvole. Forse Josh non aveva un occhio da sherpa per leggere il tempo a quelle altitudini, ma certamente sapeva rispettare chi era in grado di farlo.

Lisa fissò il pennacchio di neve che volava via dalla cima dell’Everest. Era un indicatore della corrente a getto, che in vetta poteva soffiare a oltre trecento chilometri orari. Il pennacchio si allungava all’infinito. Anche se la tempesta si era esaurita, sopra gli ottomila metri le variazioni di pressione atmosferica erano ancora impetuose. La corrente a getto avrebbe potuto catapultare su di loro una nuova tempesta in qualsiasi momento.

«Potremmo almeno arrivare al campo uno», insistette Boston Bob. «Bivaccare là e poi vedere come si mette il tempo.»

La voce del negoziante di articoli sportivi aveva assunto un irritante tono piagnucoloso, nel tentativo di ottenere qualche concessione con modi più blandi. Era rosso in viso per la frustrazione.

Lisa non riusciva a spiegarsi come potesse essere stata attratta da quell’uomo. Prima che suo fratello potesse rispondere a quel cafone, s’intromise un nuovo rumore, un tonfo sordo, come un tamburo. Tutti gli sguardi si rivolsero a est. Nella luce abbagliante dell’alba comparve un elicottero nero. Un B-2 Squirrel A-Star Ecuriel, dalla tipica forma di calabrone. Un elicottero di soccorso, progettato per raggiungere quelle altitudini.

Il gruppo piombò in un silenzio assoluto.

La settimana precedente, appena prima che iniziasse l’ultima tempesta, una spedizione era salita sul versante nepalese. Secondo i contatti radio, erano al campo due, a oltre seimila e quattrocento metri di altitudine.

Lisa si schermò gli occhi. Era forse successo qualcosa?

Aveva visitato la clinica della Himalayan Rescue Association, a Pheriche. Era lì che venivano smistati tutti i casi tipici di quelle parti: ossa rotte, edema polmonare e cerebrale, congelamento, malattie cardiovascolari, dissenteria, accecamento da neve e ogni genere di infezioni, comprese quelle veneree. Pareva che persino clamidia e gonorrea fossero determinate a conquistare la vetta dell’Everest.

Ma che cos’era successo stavolta? Non c’era stato nessun SOS sulla frequenza radio delle emergenze. Gli elicotteri potevano arrivare soltanto un po’ più su del campo base, data la rarefazione dell’aria. Ciò significava che i salvataggi aerei spesso imponevano una discesa a piedi dalle altitudini più ostiche. Sopra i settemilacinquecento metri i morti venivano semplicemente lasciati dov’erano, tanto che i pendii più elevati dell’Everest si erano trasformati in un cimitero ghiacciato di attrezzature abbandonate, bombole d’ossigeno vuote e cadaveri mummificati dal gelo.

Il battito dei rotori cambiò tono.

«Vengono da questa parte», disse Josh, facendo cenno a tutti quanti di spostarsi dove erano annidate le tende, sgombrando l’area pianeggiante che fungeva da eliporto per l’accampamento.

L’elicottero nero scese su di loro. Il vortice creato dall’elica sollevò sabbia e sassolini. Un incarto di Snickers passò accanto alla faccia di Lisa. Le bandierine di preghiera danzavano e si contorcevano. Gli yak si dispersero. Dopo così tante giornate di silenzio sulle montagne, il rumore era assordante.

Il B-2 si posò sui pattini con una grazia che ne contraddiceva le dimensioni. I portelloni si aprirono e ne scesero due uomini. Uno indossava un’uniforme mimetica verde e portava in spalla un fucile automatico: era un militare dell’esercito reale del Nepal. L’altro era più alto, portava una tunica rossa e un mantello, una fascia in vita, la testa rasata a zero: un monaco buddista.

I due si avvicinarono a un paio di sherpa e parlarono speditamente in un dialetto nepalese. Ci furono un po’ di gesti, poi si sollevò un braccio, a indicare qualcuno.

Lisa.

Il monaco si avviò verso di lei, affiancato dal militare. Dalle rughe che il sole gli aveva scavato attorno agli occhi, il monaco sembrava sui quarantacinque, la pelle color caffellatte, gli occhi color caramello.

Il militare aveva la pelle più scura e gli occhi semichiusi. Aveva lo sguardo fisso sulla scollatura della donna. Lisa aveva lasciato aperto lo zip della giacca e il reggiseno sportivo che indossava sotto il pile aveva catturato l’attenzione del soldato.

Il monaco buddista, per contro, mantenne uno sguardo rispettoso, inclinando leggermente il capo a mo’ d’inchino. Parlava un inglese accurato, con un lieve accento britannico.

«Dottoressa Cummings, mi scuso per l’intrusione, ma c’è stata un’emergenza. Sono stato informato dalla clinica dell’HRA che lei è un medico.»

Lisa aggrottò le sopracciglia. «Sì.»

«Un vicino monastero è stato colpito da un male misterioso, che affligge quasi tutti gli abitanti. Un unico messaggero, un uomo di un villaggio circostante, ha viaggiato a piedi per tre giorni fino all’ospedale di Khunde. Una volta avvisati, speravamo di inviare uno dei medici dell’HRA al monastero, ma il personale della clinica è già sovraccarico per via di una valanga. La dottoressa Sorenson ci ha informato della sua presenza, qui al campo base.»

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