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«Lei mostra un evidente nistagmo.»

«Cosa?»

Lisa gli passò una borraccia di acqua fresca e gli fece cenno di sedersi su una balla di fieno. Lui non fece obiezioni. La balla era dura come il cemento.

«I suoi occhi mostrano segni di nistagmo orizzontale, uno spasmo orizzontale delle pupille. Ha preso un colpo in testa?»

«Non penso. È grave?»

«Difficile a dirsi. Può essere il risultato di un danno all’occhio o al cervello. Un ictus, la sclerosi multipla o un trauma cranico. Date le vertigini, direi che ha subito un trauma all’apparato vestibolare. Forse nell’orecchio interno, forse al sistema nervoso centrale. Molto probabilmente non è permanente.» L’ultima frase fu borbottata con un tono alquanto sconcertante.

«Che cosa intende per ‘molto probabilmente’, dottoressa Cummings?»

«Mi chiami Lisa», replicò lei, come se cercasse di distrarlo.

«Va bene, Lisa. Allora, potrebbe essere permanente?»

«Ci vorranno altri esami. Magari potrebbe cominciare raccontandomi come è successo tutto questo.»

Lui bevve una sorsata d’acqua. Magari avesse potuto raccontarglielo… Cercò di ricordare, ma gli venne un dolore lancinante dietro gli occhi. Gli ultimi giorni erano una macchia informe. «Ero in uno dei villaggi circostanti. Improvvisamente, durante la notte sono apparse strane luci sulle montagne. Ma io me li sono persi, i fuochi d’artificio. Quando mi sono svegliato erano già sparite. La mattina seguente, però, tutti gli abitanti del villaggio lamentavano mal di testa e nausea, me compreso. Ho chiesto a uno degli anziani. Ha detto che le luci apparivano di quando in quando già da diverse generazioni. Luci spettrali, attribuite a spiriti maligni delle montagne.»

«Spiriti maligni?»

«Ha indicato il punto in cui erano state viste le luci, in una regione remota delle montagne, un’area di profonde gole e cascate di ghiaccio che si estende sino al confine con la Cina, difficile da attraversare. Il monastero è su una spalla della montagna che sovrasta quella terra di nessuno.»

«Perciò il monastero era più vicino a quelle luci?»

Painter annuì. «Le pecore sono morte tutte entro ventiquattro ore. Alcune sono rimaste stecchite sul posto, altre hanno sbattuto la testa a non finire contro i massi. Io sono ritornato il giorno dopo, in preda a dolori e conati di vomito. Lama Khemsar mi ha dato del tè. È l’ultima cosa che ricordo.» Bevve un altro sorso dalla borraccia e sospirò. «Era tre giorni fa. Poi mi sono svegliato chiuso a chiave in una stanza. Ho dovuto abbattere la porta per uscire.»

«È stato fortunato», disse la donna, prendendo la borraccia.

«Perché?»

Lei incrociò le braccia, come a schermarsi, proteggersi. «Fortunato a essere lontano dal monastero. Sembra che la prossimità alle luci sia correlata alla gravità dei sintomi.» Distolse lo sguardo, volgendo gli occhi al soffitto, come se cercasse di vedere attraverso le pareti. «Forse era una forma di radiazioni. Non ha detto che il confine con la Cina non è distante? Forse era un esperimento nucleare di qualche tipo.»

Painter si era fatto la stessa domanda qualche giorno prima.

«Perché scuote la testa?» chiese Lisa.

Painter non se n’era nemmeno reso conto. Si portò una mano alla fronte.

Lisa aggrottò le sopracciglia. «Non mi ha ancora detto che cosa ci fa lei qui, signor Crowe.»

«Chiamami Painter», disse con un sorriso beffardo. Non ottenne un grande effetto. Si chiedeva quanto altro dire. In quelle circostanze, essere onesto gli sembrò la cosa più prudente. O almeno essere onesto entro certi limiti. «Lavoro per il governo, una divisione che si chiama DARPA. Ci occupiamo…»

Lisa lo interruppe con un cenno delle dita, tenendo sempre le braccia conserte. «Conosco la DARPA, la divisione di ricerca e sviluppo dell’esercito americano. Tempo fa mi ha dato una borsa di studio per condurre una ricerca. Di che cosa vi interessate, da queste parti?»

«Be’, sembra che tu non sia l’unica a essere stata reclutata da Ang Gelu. Ha contattato la nostra organizzazione una settimana fa, per indagare su voci di strane malattie da queste parti. Avevo giusto cominciato a studiare la situazione, determinare quali esperti convocare sul posto — medici, geologi, militari —, quando sono arrivate le tempeste. Non mi aspettavo di restare isolato per così tanto tempo.»

«Sei riuscito a escludere qualche possibilità?»

«Dopo i primi colloqui, ero preoccupato che forse i ribelli maoisti della zona fossero entrati in possesso di qualche scoria nucleare e avessero preparato una bomba sporca. Un po’ come quello che ipotizzavi tu sui cinesi. Perciò ho fatto qualche rilevamento di radioattività, mentre aspettavo che finissero le tempeste. Non ho riscontrato nulla di insolito.»

Lisa lo fissava, come se stesse studiando uno strano coleottero. «Se riuscissimo a raggiungere un laboratorio, forse potremmo avere qualche risposta.»

Quindi non lo considerava proprio un coleottero, ma piuttosto una cavia. Perlomeno stava risalendo la scala evolutiva.

«Prima dobbiamo sopravvivere», disse Painter, ricordandole qual era la realtà del momento.

Lei guardò il soffitto del seminterrato. Non sentivano colpi d’arma da fuoco da qualche tempo. «Forse pensano che siano tutti morti. Se restiamo qui sotto…»

Painter scostò la balla di fieno e si alzò. «Dalla tua descrizione, l’attacco è stato metodico, pianificato. Sicuramente conoscono questi tunnel e alla fine verranno a cercare anche qui. Possiamo soltanto sperare che aspettino che l’incendio si plachi.»

Lisa annuì. «Allora andiamo avanti.»

«E ci togliamo dai guai. Possiamo farcela», la rassicurò lui. Poggiò una mano sulla parete per mantenere l’equilibrio. «Possiamo farcela», ripeté, rivolto a se stesso più che a lei.

Si rimisero in cammino.

Dopo qualche passo, Painter si sentì più sicuro.

Bene.

L’uscita non poteva essere molto lontana.

Come a confermare quell’ipotesi, una brezza gelida sibilò lungo il corridoio, facendo oscillare i mazzetti di erbe con un suono secco. Painter sentì l’aria fredda sul viso. Si bloccò all’istante. L’istinto del cacciatore prese il sopravvento. Per metà era l’addestramento nelle Forze Speciali, per metà ce l’aveva nel sangue. Allungò una mano dietro di sé, prese Lisa per un braccio e le fece cenno di restare in silenzio.

Spense la penna luminosa.

Davanti a loro qualcosa di pesante atterrò sul pavimento e un’eco si diffuse nel corridoio. Scarponi. Una porta sbattuta. La brezza cessò.

Non erano più soli.

Il killer si chinò nell’angusto seminterrato. Sapeva che c’era qualcun altro là sotto. Quanti? Si mise in spalla il fucile ed estrasse una pistola Heckler Koch MK23. Aveva già tolto il primo paio di guanti, rimanendo con quelli che gli lasciavano le dita scoperte. Rimase fermo ad ascoltare.

Un debolissimo strascichio di piedi.

Battevano in ritirata.

Almeno due persone, o forse tre.

Alzò una mano per chiudere la botola che conduceva al granaio sovrastante. La brezza gelida cessò, con un ultimo sibilo, mentre l’oscurità si richiudeva sopra di lui. Si calò sugli occhi un paio di occhiali per visione notturna e accese una lampada ultravioletta che portava legata a una spalla. Il corridoio cominciò a brillare di sfumature verde argenteo.

Lì accanto, su uno scaffale, erano accatastati scatolame e file di vasetti di miele, sigillati con la ceralacca. Li superò muovendosi lentamente, in silenzio. Non c’era fretta. Le uniche altre uscite portavano a una catastrofe di fuoco e fiamme. Aveva già sparato ai monaci che avevano ancora abbastanza senno in quelle teste marce per sfuggire alle fiamme.

Uccisi per misericordia, tutti quanti.

Come lui sapeva fin troppo bene.

La Campana era stata suonata troppo forte.

Era stato un incidente, uno dei tanti accaduti negli ultimi tempi.

Nel mese precedente aveva percepito l’agitazione tra gli altri inquilini del Granitschloß. Ancora prima dell’incidente. Qualcosa aveva messo in subbuglio il castello, un’agitazione che aveva percepito anche dai luoghi remoti in cui si trovava la sua appartata dimora. L’aveva ignorata. Non era un problema suo.

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