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Girando nuovamente su se stesso, Khamisi seguì la biologa. Guardava spesso indietro, con le orecchie tese a captare qualsiasi suono di inseguimento. Ci fu un tonfo nell’acqua del vicino stagno. Khamisi lo ignorò, era qualcosa di piccolo. Troppo piccolo. Il suo cervello scartava i dettagli estranei, vagliando i suoni tra il ronzio degli insetti e il crepitio delle canne. Era concentrato sui veri segnali di pericolo. Suo padre gli aveva insegnato a cacciare quando aveva soltanto sei anni, inculcandogli i segni da cercare nell’inseguire le prede.

Questa volta, però, la preda era lui.

Un frullio di ali in panico gli fece aprire gli occhi e le orecchie.

Un movimento appena percettibile. Sulla sinistra, in lontananza.

Nel cielo.

Un’averla che si era alzata in volo.

Qualcosa l’aveva spaventata. Qualcosa che stava arrivando.

Khamisi raggiunse la dottoressa al limitare delle canne. «Presto.»

La Fairfield allungò il collo, facendo oscillare il fucile. Era in affanno, pallida. Khamisi seguì il suo sguardo. La Jeep era più su, ai piedi della collina, parcheggiata all’ombra del baobab, ai margini della profonda conca. Il pendio sembrava più ripido e più lungo di quando lo avevano percorso in discesa.

«Non si fermi», la incalzò lui.

Dando un’occhiata indietro, Khamisi vide una femmina di saltarupe, dal manto bruno fulvo, saltare fuori dalla foresta e risalire a grandi balzi il pendio opposto, sollevando una nuvola di polvere. Dopo un attimo era scomparsa.

Dovevano seguire il suo esempio.

La dottoressa Fairfield riprese a risalire il pendio. Khamisi la seguiva, camminando lateralmente, con la doppietta puntata verso la foresta alle loro spalle.

«Non hanno ucciso per mangiare», disse ansimando la dottoressa, davanti a lui.

Khamisi studiava l’oscuro garbuglio della foresta. Perché era certo che la Fairfield avesse ragione?

«Non è la fame che li ha istigati», proseguì la biologa, come se si sforzasse di placare il panico tramite la riflessione. «Non hanno mangiato quasi niente. È come se avessero ucciso per piacere, come un gatto domestico che caccia un topo.»

Khamisi era entrato in contatto con molti predatori. Quella situazione non rientrava nelle modalità del mondo naturale. Dopo un pasto, i leoni raramente rappresentavano una minaccia. Solitamente se ne stavano sdraiati indolenti, si poteva persino avvicinarli, a una certa distanza. Un predatore sazio non avrebbe squartato una femmina di rinoceronte, strappandole il piccolo dalla pancia, per puro divertimento.

La dottoressa Fairfield proseguiva la sua litania, come se il pericolo imminente fosse un rebus da risolvere: «Nel mondo degli animali domestici, il gatto ben nutrito caccia di più, avendo il tempo e l’energia per quel tipo di gioco».

Gioco?

Khamisi rabbrividì. «L’importante è che lei continui a camminare», disse, non volendo sentire altro.

La dottoressa Fairfield annuì, ma le sue parole rimasero impresse nella mente di Khamisi. Che tipo di predatore poteva uccidere per puro divertimento?

Una risposta ovvia c’era: l’uomo.

Ma quella non era opera di un essere umano.

Ancora una volta, un movimento catturò lo sguardo di Khamisi. Solo per un attimo, una sagoma diafana comparve dietro la cortina della foresta oscura. La vide con la coda dell’occhio, ma sparì come una nuvola di vapore, quando lui si concentrò su quel punto.

Gli sovvennero le parole del vecchio zulù raggrinzito: Per metà bestia, per metà fantasma…

Nonostante il caldo, si sentì raggelare. Accelerò il passo, quasi spingendo l’anziana biologa su per il pendio. Il terreno di sabbia e scisto era ingannevole: poco compatto, sfuggiva sotto i piedi. Ma erano quasi arrivati in cima. La Jeep era a soli trenta metri di distanza.

Poi la dottoressa scivolò. Sbatté un ginocchio e cadde addosso a Khamisi. Lui incespicò all’indietro, perse l’appoggio e cadde pesantemente a terra. L’inclinazione del pendio e lo slancio lo fecero capitombolare. Ruzzolò per metà della scarpata, finché non riuscì a frenare la caduta coi talloni e col calcio del fucile.

La dottoressa Fairfield era ancora seduta nel punto in cui era finita a terra, gli occhi spalancati per il terrore, lo sguardo fisso su un punto, più in basso.

Non guardava lui, ma la foresta.

Khamisi si voltò, poggiandosi sulle ginocchia. Un dolore lancinante gli martoriava la caviglia, distorta o forse rotta. Cercò e non vide nulla, ma sollevò comunque il fucile. «Vada!» Aveva lasciato le chiavi nel quadro. «Vada!»

Sentì la dottoressa Fairfield alzarsi, tra lo sgretolio dello scisto.

Dal limitare della foresta emerse un altro ululato, una risata stridula inumana.

Khamisi puntò il fucile alla cieca e premette il grilletto. Il tuono del fucile squarciò la valle. Dietro di lui, la dottoressa Fairfield gridò, allarmata. Khamisi sperò che il rumore avesse spaventato anche quelle creature sconosciute che stavano in agguato.

«Vada alla Jeep! Non mi aspetti!» Si alzò, senza pesare sulla caviglia infortunata. Teneva pronto il fucile. Il silenzio era calato nuovamente sulla foresta.

Sentì la dottoressa Fairfield in cima al pendio: «Khamisi…»

«Prenda la Jeep!» Si arrischiò a dare un’occhiata alle sue spalle.

Giunta sul crinale, la dottoressa Fairfield puntò verso il fuoristrada.

Sopra di lei, un movimento tra i rami del baobab attirò l’attenzione di Khamisi, una lieve oscillazione di qualche grappolo di fiori bianchi. Non c’era vento. «Presto! Non…»

Dietro di lui si scatenò un urlo selvaggio, che soffocò il resto del suo avvertimento. La dottoressa Fairfield fece mezzo passo verso di lui.

No…

Saltò giù dalle ombre profonde dell’albero gigante. Era una massa chiara informe. Cadde sulla biologa ed entrambi scomparvero alla sua vista. Sentì l’urlo agghiacciante della donna, troncato sul nascere.

Ritornò il silenzio.

Khamisi guardò la foresta ancora una volta.

La morte sopra e sotto di lui.

Aveva una sola possibilità.

Ignorando il dolore alla caviglia, si mise a correre giù per il pendio.

Lasciò che la gravità prendesse il sopravvento. Più che uno scatto era una caduta libera. Corse ai piedi della collina, con le gambe che faticavano a tenerlo in piedi. Arrivato in fondo, puntò la doppietta verso la foresta ed esplose un secondo colpo.

Non s’illudeva di riuscire ad allontanare i predatori. Cercava soltanto di procurarsi una frazione supplementare di vita. Inoltre, il rinculo del fucile lo aiutò a mantenere l’equilibrio, mentre arrivava in fondo alla discesa. Continuò a correre, con la caviglia in fiamme e il cuore che batteva all’impazzata.

Vide, o forse intuì soltanto, qualcosa di grosso che si muoveva, proprio al limitare della foresta. Un’ombra leggermente più pallida.

Per metà bestia, per metà fantasma…

Pur senza averlo visto, sapeva qual era la verità.

Ukufa.

Morte.

Non oggi, pregò, non oggi…

Cadde fragorosamente tra le canne e si tuffò a capofitto nell’abbeveratoio.

Copenhagen, Danimarca,

ore 09.31

Fiona sottolineò con un urlo il colpo di fucile del cecchino.

Gray girò su se stesso, sperando di non essere colpito a morte. Mentre si voltava, tra i resti della finestra fumante del negozio vide emergere fragorosamente una grossa massa informe.

Il cecchino doveva aver visto quello stesso movimento una frazione di secondo prima di Gray, abbastanza da alterare di un soffio la sua mira.

Gray sentì il proiettile incandescente passargli sotto il braccio sinistro. Continuò a correre e piroettare, cercando di uscire dalla zona di tiro ravvicinato.

Dalla finestra, la sagoma gigantesca balzò in cima al bidone della spazzatura e ruzzolò sul cecchino.

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