Cosi passò l’inverno, finché non giunse la stagione degli agnelli, e per qualche tempo il lavoro divenne molto pesante, mentre i giorni si allungavano e diventavano sempre più chiari. Poi le rondini fecero ritorno dalle isole illuminate dal sole, dalle Terre Meridionali, dove la stella più splendente è Gobardon della costellazione del Termine; ma i discorsi delle rondini tra loro parlavano solo di inizi.
IL PADRONE
Dopo le rondini, anche le navi ricominciarono a volare da un’isola all’altra con il ritorno della primavera. Nei villaggi si diceva, ripetendo voci giunte da Valmouth, che le navi del re davano la caccia ai predatori, spingendo alla rovina pirati bene affermati, confiscando le loro navi e le loro fortune. Lord Heno in persona aveva fatto salpare le sue tre navi più belle e più veloci, capitanate dal pirata-stregone Tally, temuto da ogni mercantile da Soléa alle Andrades; la sua flotta contava di tendere un’imboscata alle navi reali al largo di Oranéa e di distruggerle. Ma fu uno dei vascelli del re a entrare nella baia di Valmouth con Tally in catene, e con l’ordine di scortare Lord Heno a Porto Gont, dove lo attendeva un processo per pirateria e omicidio. Heno si barricò nel suo castello, sulle colline dietro Valmouth, ma si dimenticò di accendere un fuoco, dato che si era in primavera e faceva già caldo. Così, cinque o sei dei giovani soldati del re gli piombarono addosso passando per il camino, e l’intera squadra lo scortò in catene lungo le vie di Valmouth per poi consegnarlo alla giustizia.
Quando ne venne a conoscenza, Ged disse con affetto e orgoglio: «Tutte le cose che un re può fare, lui le farà bene».
Faina e Lince erano stati immediatamente trasferiti a Porto Gont, per la strada del nord, e Tinca, non appena le ferite gli si erano rimarginate, vi era stato portato per nave, per essere processato da una corte di giustizia del re. Nella Valle di Mezzo, la notizia della loro condanna alle galee fu motivo di soddisfazione e di molte autocongratulazioni, cui Tenar, e Therru vicino a lei, assistette in silenzio.
Giunsero altre navi con altri uomini mandati dal re, e non tutti furono accolti con la stessa simpatia dalla popolazione della scontrosa Gont: sceriffi del regno, inviati per controllare il comportamento delle guardie e dei giudici di pace, e per ascoltare le lamentele e le denunce della gente comune; ispettori delle tasse ed esattori; nobili che andavano a fare visita ai signorotti di Gont e che si informavano educatamente della loro fedeltà alla corona di Havnor; e maghi che andavano qua e là e che davano l’impressione di fare poco e di parlare ancor meno.
«Penso che alla fine si siano decisi a cercare un nuovo Arcimago», disse Tenar.
«O che cerchino gli abusi della professione», rifletté Ged. «La magia usata a scopi malvagi.»
Tenar era sul punto di osservare: «Allora dovrebbero andare a dare un’occhiata nel castello di Re Albi!» ma non riuscì a pronunciare le parole. Che cosa intendevo dire? si chiese. Dovrei parlare a Ged di… me ne sono scordata. Che cosa volevo dirgli? Ah, sì, che c’è da riparare il cancello in fondo al pascolo, prima che le mucche scappino via.
Aveva sempre dieci cose per la mente, questioni della fattoria. «Non riesci mai a fare una cosa sola per volta», le aveva detto Ogion. Anche con Ged ad aiutarla, tutte le sue giornate, tutti i suoi pensieri erano dedicati alla fattoria. Ged condivideva con lei il lavoro domestico, più di quanto Selce avesse mai fatto. Ma Selce era un fattore, mentre Ged non lo era. Imparava in fretta, ma le cose da sapere erano tante. Lavoravano. C’era poco tempo per parlare, adesso. Alla fine della giornata cenavano insieme e poi andavano a dormire insieme, dormivano e si svegliavano all’alba per rimettersi al lavoro, e così giorno dopo giorno, come la ruota di un mulino, riempirsi e svuotarsi, i giorni come cascate d’acqua.
«Ciao!» gridò un giovanotto snello, dal cancello della fattoria.
Tenar pensò che fosse il figlio di Lodola e gli chiese: «Che cosa è successo, giovanotto?» Poi staccò gli occhi dai pulcini che beccavano e dalle oche che passavano in parata.
«Scintilla!» esclamò, e corse verso di lui, mentre oche e pulcini scappavano da tutte le parti.
«Su, su», disse lui. «Non ti agitare così.»
Si lasciò abbracciare e baciare. Poi entrò in casa e si sedette al tavolo, in cucina.
«Hai mangiato? Melina, l’hai vista?»
«Potrei mangiare qualcosa?»
Tenar andò a prendere del cibo nella dispensa ben fornita. «Su che nave sei? Sempre il Gabbiano?»
«No.» S’interruppe. «La mia nave non c’è più.»
Lei lo guardò inorridita. «È affondata?»
«No.» Fece una smorfia. «L’equipaggio è stato rimandato a casa. Gli uomini del re l’hanno sequestrata.»
«Ma… non era una nave pirata…»
«No.»
«Ma allora…?»
«Hanno detto che il capitano trasportava certe merci che loro cercavano», spiegò Scintilla, a malincuore. Era magro come sempre, ma sembrava più vecchio, era molto abbronzato, aveva i capelli lunghi, la faccia affilata come quella di Selce, ma ancor più dura.
«Dov’è il babbo?» chiese.
Tenar s’irrigidì.
«Non sei passato da tua sorella.»
«No», rispose lui, con indifferenza.
«Selce è morto tre anni fa», rispose lei. «Un colpo. Mentre era nei campi… al ritorno dal recinto delle pecore. L’ha trovato Rivochiaro.»
Scese il silenzio. Scintilla non sapeva che cosa dire, o non aveva nulla da dire.
Tenar gli mise davanti il piatto, e Scintilla cominciò a mangiare così avidamente che gli portò subito dell’altro cibo.
«Da quant’è che non mangi?»
Lui alzò le spalle e continuò a mangiare.
Tenar si sedette davanti a lui. Il sole della primavera inoltrata entrava dalla finestra di fronte al tavolo e illuminava l’ottone degli alari, nel focolare.
Finalmente, Scintilla spinse via il piatto.
«Allora, chi ha mandato avanti la fattoria?» chiese.
«Perché me lo chiedi, figliolo?» ribatté lei, gentile ma ferma.
«È mia», rispose, con un tono identico.
Dopo qualche istante, Tenar si alzò e portò via i piatti. «Hai ragione.»
«Tu puoi restare, naturalmente», disse Scintilla, con aria impacciata. Forse voleva scherzare, ma non era un uomo portato agli scherzi. «Il vecchio Rivochiaro è ancora qui?»
«Sono ancora qui tutti. E c’è un uomo chiamato Falco, e una bambina che ho preso con me. Qui, nella casa. Dovrai dormire in soffitta. Ti metto la scala.» Lo fissò. «Intendi rimanere, allora?»
«Potrei farlo.»
Anche Selce, per vent’anni, aveva risposto alle sue domande allo stesso modo: le aveva negato il diritto di rivolgergliele, con il sistema di non rispondere mai né sì né no; aveva conservato una libertà fondata sulla sua ignoranza; una libertà miserabile, angusta, pensava lei.
«Povero ragazzo», rifletté. «Il tuo equipaggio mandato a casa, tuo padre morto, ed estranei nella tua casa; tutto in un giorno. Ti occorrerà del tempo per abituarti. Mi dispiace, figlio. Ma sono contenta di vederti. Ho pensato spesso a te, in mare, nella tempesta, nell’inverno.»
Lui non disse niente; non aveva niente da offrire, ed era incapace di accettare. Stava per alzarsi, quando entrò Therru. Scintilla la fissò, immobilizzandosi. «Che cosa le è successo?» chiese.
«L’hanno bruciata. Questo è mio figlio, Therru. Te ne ho parlato: il marinaio, Scintilla. Therru è tua sorella, Scintilla.»
«Sorella!»
«Adottiva.»
«Sorella!» ripeté di nuovo Scintilla, e si guardò attorno, come per cercare un testimone, poi tornò a fissare la madre.
Lei lo fissò a sua volta.
Scintilla uscì, tenendosi lontano da Therru, che era rimasta immobile. Si sbatté la porta alle spalle.
Tenar fece per parlare a Therru e non ci riuscì.
«Non piangere», disse la bambina che non piangeva mai; si avvicinò a lei e le toccò il braccio. «Ti ha fatto male?»