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Therru stava già correndo al capanno.

«È tua figlia?» chiese Ged. Non aveva mai parlato della bambina, fino a quel momento, e per un attimo Tenar riuscì solo a pensare che talvolta gli uomini erano davvero strani.

«No, e neanche mia nipote. Ma è la mia bambina», disse. Perché le era di nuovo venuta voglia di prenderlo in giro?

Ged si staccò dal recinto proprio mentre Sippy correva verso di loro — un lampo marrone e bianco — seguita a grande distanza da Therru.

«Ehi!» esclamò Ged, e con un balzo bloccò la strada alla capra, spingendola verso il cancello e verso le braccia di Tenar, che riuscì ad afferrarla per il collare. La capra s’immobilizzò immediatamente, tranquilla come un agnellino, e con uno dei suoi occhi gialli fissò Tenar, con l’altro guardò i filari delle cipolle.

«Via!» disse Tenar, allontanandola da quel paradiso delle capre e facendola entrare nel pascolo, molto più sassoso, a lei riservato.

Ged si era seduto a terra, trafelato come la bambina, o anche di più, perché ansimava e aveva le vertigini; ma almeno non piangeva. Quando c’è da rovinare qualcosa puoi sempre contare sulle capre.

«Erica non doveva incaricarti di sorvegliare Sippy», disse Tenar, rivolta a Therru. «Nessuno può sorvegliare quella capra. Se scappa di nuovo, devi dirlo a Erica, e non devi preoccuparti. Va bene?»

Therru annuì. Stava guardando Ged. Era difficile che guardasse la gente, e soprattutto gli uomini, per più di un istante, ma ora lo fissava, con la testa inclinata come quella di un passero. Che fosse nato un eroe?

RICADUTA

Era passato più di un mese dal solstizio, ma le sere erano ancora lunghe, sul Grande Precipizio che si affacciava verso ovest. Therru era ritornata tardi da una spedizione con Zia Muschio, alla ricerca di erbe, che era durata tutto il giorno, ed era troppo stanca per mangiare. Tenar l’aveva messa a letto e le sedeva accanto, per cantarle qualche canzone. Quando era stanca, la bambina non riusciva a dormire, ma si raggomitolava nel letto come un animale paralizzato, fissava qualche allucinazione fino a portarsi in uno stato di incubo, né sveglia né addormentata, e diventava irraggiungibile. Tenar aveva scoperto di poter evitare quella paurosa condizione stringendo a sé la bambina e facendola addormentare con i suoi canti. Quando terminava quelli che aveva imparato nella fattoria della Valle di Mezzo, iniziava con gli interminabili canti di Karg che aveva imparato da bambina nelle Tombe di Atuan, e cullava Therru con la monotonia e il dolce lamento delle offerte ai Poteri Senza Nome e al Trono Vuoto, che adesso era pieno della polvere e delle rovine del terremoto. In quei canti non sentiva altro Potere che quello della musica in sé, e le piaceva cantare nella propria lingua, anche se non conosceva le ninne-nanne delle madri di Atuan, quelle che sua madre aveva cantato a lei.

Infine, Therru si addormentò. Tenar la infilò sotto le coperte e attese qualche istante per accertarsi che il sonno fosse regolare. Poi, dopo essersi guardata attorno per assicurarsi che nessuno la vedesse, con una sorta di piacere colpevole, posò la mano sulla faccia della bambina, dove il fuoco aveva divorato l’occhio e la guancia, lasciando solo la pelle cicatrizzata. Sotto la mano, non sentì niente di tutto questo. La pelle era liscia: era la guancia tonda di una bambina addormentata. La sua mano aveva ristabilito la verità.

Poi, lentamente, con riluttanza, alzò la mano e vide la perdita irreparabile, la guancia che non sarebbe mai guarita del tutto.

Si chinò sulla bambina e accostò le labbra alla cicatrice, si alzò senza fare rumore e uscì dalla casa.

Il sole tramontava, avvolto da un alone perlaceo. Non c’era nessuno. Sparviero si era probabilmente allontanato nella foresta. Aveva preso l’abitudine di recarsi alla tomba di Ogion, e passava ore intere sotto l’albero preferito dal vecchio mago; da quando gli erano ritornate le forze aveva cominciato a vagare per la foresta, lungo i sentieri amati da Ogion. Mangiare evidentemente non aveva alcuna attrattiva per lui; Tenar doveva sempre ricordarglielo. Inoltre, Ged evitava la compagnia e preferiva la solitudine. Therru l’avrebbe seguito dappertutto, ed essendo silenziosa come lui non gli avrebbe dato fastidio, ma Ged era inquieto, e finiva per rimandare a casa la bambina e per allontanarsi da solo, fino a luoghi lontani. Tenar non sapeva perché ci andasse. Ritornava tardi e si metteva subito a dormire; spesso, l’indomani mattina, si allontanava ancor prima che lei e la bambina si svegliassero. Tenar gli lasciava sempre del pane e del formaggio da portare via.

Quella sera lo vide ritornare dal sentiero che le era parso tanto lungo e faticoso, quando aveva aiutato Ogion a percorrerlo per l’ultima volta. Quando giunse, Ged era circondato dall’aria luminosa, dalle erbe piegate dal vento, e camminava ritto, chiuso nel suo dolore, duro come la pietra.

«Rimani tu, in casa?» gli chiese, quando fu più vicino. «Therru si è addormentata. Volevo andare a fare due passi.»

«Sì, va’ pure», rispose lui, e lei si allontanò, riflettendo sull’indifferenza degli uomini nei riguardi delle esigenze delle donne: che doveva sempre rimanere qualcuno vicino a un bambino che dormiva, che la libertà di uno comportava la schiavitù di un altro… a meno che non si raggiungesse un equilibrio mobile e in continua evoluzione, come quando si cammina e si muove prima una gamba poi l’altra, praticando quella straordinaria arte che è la deambulazione… Poi si accorse che il colore del cielo era diventato più scuro e che il vento si era levato. Proseguì il cammino, senza perdersi in altre metafore, finché non giunse sul ciglio del Precipizio. Là si fermò a guardare il sole che si perdeva in un alone roseo e sereno.

Si inginocchiò e trovò prima con gli occhi e poi anche con le dita il lungo solco irregolare scavato nella roccia, che correva fino al ciglio: la scia lasciata dalla coda di Kalessin. Passò varie volte le dita su di esso, e con lo sguardo si perse nella lontananza della sera, sognando. Disse una sola parola, che quella volta non fu più come il fuoco sulle sue labbra, ma che sibilò e si trascinò lentamente fuori: «Kalessin…»

Guardò verso est. La cima del Monte di Gont, al di sopra della foresta, era rossa e ancora illuminata dal chiarore che aveva ormai lasciato il punto dove si trovava Tenar. Il colore svanì pian piano, mentre la donna lo osservava. Lei distolse lo sguardo per qualche istante e, quando tornò a osservare la cima, la vide grigia, cupa, e la foresta che copriva il fianco del monte le parve nera.

Attese ancora che spuntasse la stella della sera, poi, quando la vide splendere al di sopra dei vapori del cielo, tornò lentamente verso casa.

Una casa che non era la sua. Perché rimaneva lì nella casa di Ogion, invece di ritornare alla Fattoria delle Querce, e perché si occupava delle capre e delle cipolle di Ogion e non delle sue pecore e dei suoi alberi da frutto? «Aspettalo», le aveva detto Ogion, e lei l’aveva aspettato; il drago era giunto; Ged si era ristabilito; abbastanza, almeno. Tenar aveva fatto la sua parte. Aveva badato alla casa. Non c’era più bisogno di lei. Era tempo che se ne andasse.

Eppure, non riusciva a lasciare quell’alta cornice di roccia, quel nido di falco, per ritornare nella pianura, dove la vita era facile, dove non soffiava il vento: al pensiero, si sentiva mancare il cuore, e si rabbuiava. Non aveva fatto un sogno, sotto la piccola finestra d’occidente? E non era venuto a trovarla un drago, lassù?

La porta della casa era aperta come sempre, per lasciar passare la luce e l’aria. Sparviero sedeva al buio, su un basso sgabello, vicino al focolare che Tenar aveva già spazzato. Amava sedere là, e Tenar pensò che doveva essere il posto dove si sedeva da bambino, durante il breve apprendistato presso Ogion. Anche lei sedeva sempre in quel luogo d’inverno, quando era allieva del mago.

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