«Sono figurine d’osso», disse poi Therru. Solo allora la bambina distolse lo sguardo e si avviò, camminando davanti all’uomo e alla donna, lungo lo stretto sentiero.
«La sua lingua», disse Ged. «La sua lingua materna.»
«Tehanu», disse Tenar. «Il suo nome è Tehanu.»
«Le è stato assegnato dal Datore di Nomi.»
«È sempre stata Tehanu, fin dall’inizio.»
«Venite!» disse la bambina, girandosi verso di loro. «Zia Muschio sta male.»
Finalmente poterono trasportare Muschio alla luce e all’aria, lavarle le piaghe e bruciare le lenzuola sudicie del letto, mentre Therru andava a casa di Ogion a prendere la biancheria pulita. Oltre alla biancheria Therru portò anche Erica, la pastorella, e con il suo aiuto sistemarono di nuovo la vecchia sul letto, circondata dalle sue galline; Erica andò a prendere qualcosa da mangiare.
«Qualcuno dovrebbe andare a Porto Gont, a chiedere del mago, perché si prenda cura di Muschio: può ancora guarire. E perché vada al castello. Il vecchio, adesso, potrà morire; e il nipote potrà vivere, se il castello verrà ripulito…» Ged si sedette sulla soglia della casa di Muschio, appoggiò la testa allo stipite, in un punto illuminato dalla luce del sole, e chiuse gli occhi. «Che cos’è che ci spinge a fare le cose che facciamo?» si chiese.
Tenar si lavava il viso, le braccia e le mani in un catino di acqua pulita che lei stessa aveva attinto al pozzo poco prima. Quando ebbe finito, si guardò attorno. Ged, completamente esausto, si era addormentato, con la faccia rivolta al sole del mattino. Tenar si sedette accanto a lui e appoggiò la testa sulla sua spalla. Siamo davvero salvi? si chiese. Come avremo fatto a salvarci?
Guardò la mano di Ged, non più stretta a pugno, ma aperta sul gradino di terra battuta. Pensò al cardo che annuiva nel vento, alla zampa del drago, irta d’artigli, e alle sue scaglie rosse e dorate. Era semiaddormentata quando la bambina si venne a sedere accanto a lei.
«Tehanu», mormorò.
«Il mio alberello è morto», le disse la bambina.
Dopo qualche istante, la mente stanca e sonnolenta di Tenar comprese e si destò abbastanza per rispondere. «Ci sono pesche sull’albero grande?»
Parlavano piano, per non svegliare l’uomo addormentato.
«Solo piccole e verdi.»
«Matureranno, dopo la Grande Danza. Tra poco.»
«Potremo piantarne un’altra?»
«Più di una, se vuoi. La casa è a posto?»
«È vuota.»
«Andiamo a vivere là?» Si svegliò un po’ di più, e appoggiò il braccio sulla spalla della bambina. «Ho del denaro», spiegò. «Quanto basta per comprare un gregge di capre, e anche il pascolo invernale di Turby, se è ancora in vendita. Ged sa dove portarle in montagna, d’estate… Chissà se la lana che abbiamo messo da parte è ancora qui?» Mentre lo diceva, pensò: abbiamo lasciato i libri, i libri di Ogion! Sulla mensola del focolare, alla Fattoria delle Querce… Li abbiamo lasciati a Scintilla, che, poveretto, non si sognerebbe di leggerne neppure una parola!
Ma non le parve una cosa grave. C’erano nuove cose da imparare, senza dubbio. E in qualsiasi momento avrebbe potuto mandare qualcuno a prenderli, se Ged ne avesse avuto bisogno. E a prendere il suo arcolaio. Oppure, ci sarebbe potuta andare lei stessa, il prossimo autunno, approfittandone per fare visita al figlio, per chiacchierare un po’ con Lodola, e per stare qualche giorno con Melina. Però, occorreva seminare immediatamente l’orto di Ogion, se volevano mangiarne la verdura quell’estate. Ricordò i filari di fagioli e il profumo delle loro infiorescenze. Pensò alla piccola finestra d’occidente. «Penso che potremo davvero vivere quassù», disse.
FINE