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«Ti ha visto?»

«Mi sono nascosta.»

Dopo qualche momento, Tenar disse, accarezzandole i capelli: «Non riuscirà mai a toccarti, Therru. Credimi, non ti toccherà mai più. Non ti vedrà mai più, ma, se succedesse, io ci sarò e lui dovrà fare i conti con me, allora. Mi capisci bene, cara, tesoro, mia bellissima? Non devi avere paura di lui. Lui si nutre della tua paura, ma noi lo faremo morire di fame, Therru. E alla fine sarà costretto a mangiarsi le mani, e le ossa delle sue mani lo soffocheranno… Non darmi retta, in questo momento sono arrabbiata… Sono rossa? Rossa come una donna di Gont? Sono rossa come un drago?» Cercò di scherzare.

Therru sollevò la testa, la fissò con il suo viso raggrinzito, tremante, divorato dal fuoco, e disse: «Sì, sei un drago rosso».

Per Tenar, l’idea che quell’uomo fosse venuto laggiù, fosse entrato nella casa per guardare ciò che aveva fatto e magari portarlo a compimento, non era un semplice pensiero, ma una sensazione fisica di nausea, un conato di vomito. Ma la nausea si consumò sul fuoco della collera.

Si alzarono e si lavarono; Tenar si accorse che la cosa più importante, per il momento, era la fame. «Ho un buco nello stomaco», disse a Therru, e preparò un abbondante pasto di pane e formaggio, fagioli freddi conditi con olio, erbe aromatiche e fette di cipolla, salame. Therru mangiò molto, e così Tenar.

Mentre sparecchiava la tavola, Tenar disse: «Per il momento, Therru, io non mi staccherò da te, e tu non ti staccherai da me. Va bene? E adesso dovremmo andare tutt’e due a casa di Zia Muschio. Stava preparando un incantesimo per trovarti: adesso non c’è bisogno che continui, però lei non lo sa».

Therru s’immobilizzò. Lanciò un’occhiata alla porta aperta e poi si tirò indietro.

«Dobbiamo portare dentro il bucato. Lo faremo al nostro ritorno. E ti mostrerò anche la tela che ho preso oggi. Per farti un vestito nuovo. Rosso.»

La bambina era ancora esitante. Non osava tirare il fiato.

«Se ci nascondiamo, Therru, gli diamo il suo nutrimento. Ma noi, invece, vogliamo affamarlo. Vieni con me.»

La barriera della porta era tremendamente difficile per Therru: la bambina non riusciva a superarla. Si tirava indietro, nascondeva la faccia, tremava, incespicava; era una crudeltà, ma Tenar doveva costringerla a farlo, e non ebbe pietà. «Vieni!» le disse alla fine, e la bambina la segui.

Mano nella mano, attraversarono i campi fino a raggiungere la casa di Muschio. Una volta o due Therru riuscì ad alzare la testa.

Muschio non fu affatto stupita di vederle; ma aveva un’aria strana, guardinga. Disse a Therru di correre in casa sua a vedere i nuovi pulcini della sua gallina dal colletto bianco, per sceglierne due; la bambina si affrettò a scomparire in quel rifugio.

«Era in casa», disse Tenar. «Nascosta.»

«Be’, non le do torto», rispose Muschio.

«Perché?» chiese Tenar, seccamente. In quel momento non aveva alcuna intenzione di discutere.

«C’è… c’è qualcuno in giro», rispose la strega, in tono inquieto.

«Ci sono in giro dei banditi!» esclamò Tenar. La strega la fissò e indietreggiò leggermente.

«Via, adesso», disse. «Su, cara. Hai un fuoco attorno a te, tutto un fuoco attorno alla testa. Ho fatto l’incantesimo per trovare la bambina, ma non è riuscito come volevo. È andato a modo proprio e non saprei neppure dire se è terminato. Sono stupita. Ho visto grandi creature. Ho cercato la bambina e invece ho visto loro, che volavano in mezzo alle montagne e tra le nubi. E adesso tu hai quell’alone attorno a te, come se i tuoi capelli bruciassero. Che cosa è successo?»

«Un uomo con il berretto di cuoio», spiegò Tenar. «Giovane. Di bella presenza. Ha la spalla della giubba scucita. L’hai per caso visto qui in giro?»

Muschio annuì. «L’hanno assunto quelli del castello, per raccogliere il fieno.»

Tenar lanciò un’occhiata in direzione della casa. «Ti avevo detto che la bambina stava con una donna e con due uomini? È uno di quelli.»

«Vuoi dire, uno di quelli che…»

«Sì.»

Muschio s’immobilizzò: sembrava la scultura in legno di una vecchia; era tutta rigida, bloccata. «Non so», disse infine. «Pensavo di sapere tutto, ma non so niente. Che cosa… vuole? È venuto a vederla?»

«Se è il padre, forse è venuto a prenderla.»

«Prenderla?» chiese la strega.

«È sua proprietà.»

Tenar parlava senza emozione. Alzò gli occhi verso la cima del Monte di Gont.

«Ma non credo che sia il padre. Credo che sia l’altro. Quello che è andato dalla mia amica, al villaggio, per dirle che la bambina si era ‘fatta male’.»

Muschio era ancora turbata dai suoi incantesimi e dalle sue visioni, dalla ferocia di Tenar e dalla presenza di un male abominevole. «Non so», disse. «Pensavo di saperne abbastanza. Ma perché è tornato indietro?»

«Per divorarla», disse Tenar. «Ma io non la lascerò mai sola. Domani, però, Muschio, ti chiederò di tenerla qui per un’oretta, appena farà giorno, mentre andrò al castello.»

«Certo, cara. Potrei mettere su di te un incantesimo di invisibilità. Ma… lassù ci sono i signori venuti dalla Città del Re…»

«Be’, vuol dire che vedranno come vive la gente comune», disse Tenar, e Muschio si ritrasse, come si sarebbe ritratta da una fiamma spinta dal vento contro di lei.

LA RICERCA DELLE PAROLE

All’ombra chiara del mattino, nei lunghi pascoli del Signore di Re Albi, che si stendevano su tutto il fianco della montagna, si stava raccogliendo il fieno. Tre dei mietitori erano donne e, dei due uomini, uno era un ragazzo — Tenar lo vide mentre si avvicinava — e l’altro era curvo e grigio. Si avviò lungo la parte già falciata e chiese a una delle donne informazioni dell’uomo con il berretto di cuoio.

«Quello venuto da Valmouth, ah», rispose la donna. «Non so dove sia andato.» Anche gli altri si avvicinarono, lieti di poter fare una pausa. Nessuno sapeva dove fosse finito l’uomo della Valle di Mezzo, né perché non fosse con loro a falciare. «Quel tipo di persona non sta mai fermo in un posto», disse l’uomo dai capelli grigi. «È irrequieto. Voi lo conoscete, signora?»

«Non per scelta mia», rispose Tenar. «Si è introdotto di nascosto in casa mia, mi ha spaventato la bambina. Non so neppure come si chiama.»

«Si chiama Faina», disse il ragazzo. Gli altri non dissero niente. Cominciavano a capire chi era: la donna di Karg che abitava in casa del vecchio mago. Erano fittavoli del Signore di Re Albi, avevano pochi rapporti con gli abitanti del villaggio e guardavano con superbia tutto quel che aveva a che fare con Ogion. Affilarono le falci, si girarono e tornarono al lavoro. Tenar scese dal prato, passò in mezzo ad alcuni noci e raggiunse la strada.

Laggiù c’era un uomo che la aspettava. Tenar senti un tuffo al cuore. Si avviò verso di lui.

Era Pioppo, il mago del castello. Si appoggiava al suo alto bastone di pino, sotto uno degli alberi della strada. Quando Tenar giunse vicino a lui, l’uomo disse: «Cercate lavoro?»

«No.»

«Il mio signore cerca braccianti. Il caldo sta per finire, bisogna portare il fieno al riparo.»

Per Goha, vedova di Selce, quel discorso sarebbe andato bene, e infatti lei rispose, educatamente: «Senza dubbio la vostra abilità riuscirà a fermare la pioggia finché il grano non sarà stato messo al coperto». Ma il mago sapeva che quella era la donna cui Ogion aveva confidato il suo nome vero prima di morire, e perciò la frase costituiva un tale insulto, ed era così dichiaratamente falsa da costituire un chiaro avvertimento. Tenar stava per chiedergli dove si trovasse Faina. Invece, disse: «Ero venuta ad avvertire il sorvegliante che uno degli uomini da lui scelti era un ladro e forse anche peggio; non certo il tipo di persona che fa piacere avere al proprio servizio. Ma sembra che quell’uomo se ne sia andato».

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