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Da quando Ogion era stato sepolto con in mano l’amuleto di Zia Muschio, sotto il suo faggio preferito, accanto al sentiero che portava alla cima della montagna, Tenar non aveva più visto Pioppo. Per quanto la cosa fosse strana, questi forse non sapeva della presenza dell’Arcimago nel suo stesso villaggio o, se lo sapeva, si teneva lontano da lui. E, al pari di lui, il mago di Porto Gont, anch’egli venuto a seppellire Ogion, non si era più fatto vedere. Tuttavia, benché non sapesse che Ged era lassù, quel mago sapeva perfettamente chi era lei, la Signora Bianca, che aveva al polso l’Anello di Erreth-Akbe, che aveva reintegrato la Runa della Pace… E quanti anni sono passati da allora, vecchia mia? chiese a se stessa. La superbia ti ha fatto perdere la ragione?

Comunque, era stata lei a rivelare il nome vero di Ogion. Le pareva di meritare un po’ di cortesia.

Ma i maghi, per loro natura, non avevano niente a che fare con la cortesia. Erano uomini di Potere. Era solo il Potere a muoverli. E che Potere aveva lei, adesso? Che Potere aveva avuto in passato? Da ragazza, da sacerdotessa, lei era solo un contenitore; il Potere delle Tenebre scorreva in lei, la usava, la lasciava vuota e intatta. Da giovane donna le era stata insegnata una conoscenza di Potere, da un uomo di Potere, e lei aveva rinunciato a quella conoscenza, non l’aveva toccata. Da donna adulta aveva scelto i Poteri di una donna, e li aveva usati, a tempo debito, ma quel tempo era ormai passato; il suo periodo di moglie e di madre era finito. Non c’erano Poteri riconoscibili, adesso, in lei.

Ma un drago le aveva parlato. «Io sono Kalessin», le aveva detto, e lei aveva risposto: «Io sono Tenar».

«Che cos’è un Signore dei Draghi?» aveva chiesto a Ged, nel luogo oscuro, il Labirinto, per negare il suo Potere e per costringerlo ad ammettere quello di lei; e lui le aveva risposto con la semplicità e l’onestà che sempre la disarmavano: «Un uomo con cui i draghi sono disposti a parlare».

Così, lei era una donna con cui i draghi erano disposti a parlare. Era quella la cosa nuova, la conoscenza nascosta, il minuscolo seme che aveva sentito in se stessa quando si era svegliata sotto la piccola finestra d’occidente?

Qualche giorno dopo la breve conversazione a tavola, Tenar toglieva le erbacce dall’orto di Ogion per salvare dalle male piante estive le cipolle da lui piantate in primavera. Ged si era recato al cancello del recinto che impediva alle capre di entrare nell’orto, e toglieva le erbacce da quella parte. Lavorò un poco e poi si fermò, guardandosi le mani.

«Da’ loro il tempo di guarire», disse Tenar, in tono pacato.

Lui annui.

Le alte piante di fagiolo del filare successivo erano in fiore e spandevano un profumo molto dolce. Ged sedette, appoggiando sulle ginocchia le braccia esili, e fissò l’intrico di viticci, di fiori e di baccelli illuminati dal sole. Tenar, continuando a lavorare, mormorò: «Prima di morire, Aihal ha detto: ‘Tutto è cambiato…’ E dal giorno della sua morte ho continuato a piangerlo, ma c’è qualcosa che allevia il mio dolore. Qualcosa sta per nascere… è stato liberato. L’ho capito nel sonno e, al mio risveglio, qualcosa era cambiato».

«Si», ammise lui. «Un male è finito. E…»

Dopo un lungo silenzio, Ged riprese a parlare. Non guardò Tenar, ma per la prima volta la sua voce tornò a essere quella che lei ricordava: pacata, bassa, con la secca cadenza di Gont.

«Ricordi, Tenar, il giorno in cui siamo arrivati a Havnor?»

Come potrei dimenticarmene? si chiese lei, ma non disse niente, per paura che Ged si chiudesse nel silenzio.

«Abbiamo condotto il Vistacuta in porto e siamo saliti sul molo… i gradini erano di marmo. E la gente, tutta la gente… e tu che sollevavi il braccio per mostrare loro l’Anello…»

…e io ti tenevo la mano; non ero mai stata così terrorizzata: le facce, le voci, i colori, le torri e le bandiere, l’argento, l’oro e la musica, e l’unico che conoscevo eri tu… in tutto il mondo, l’unico che conoscevo eri tu, che camminavi al mio fianco…

«Gli scudieri del palazzo reale ci hanno accompagnato fino ai piedi della Torre di Erreth-Akbe, attraverso le strade piene di gente. E siamo saliti sui suoi alti scalini, noi due soli. Ricordi?»

Lei annuì. Posò le mani sulla terra che aveva ripulito dalle erbacce, e la sentì fredda e granulosa.

«Ho aperto la porta. Era pesante; a tutta prima non voleva aprirsi. Poi siamo entrati. Ricordi?»

Pareva che Ged le chiedesse di rassicurarlo. È davvero successo? Ricordo bene?

«Era una stanza alta, grande», disse Tenar. «Mi ha fatto pensare alla mia Sala, quella in cui ero stata divorata, ma solo perché era tanto alta. La luce giungeva da finestre collocate molto in alto sulla Torre. Raggi di luce che si incrociavano come spade.»

«E il trono», disse Ged.

«Il trono, sì. Tutto oro e rosso. Ma vuoto. Come il trono nella Sala di Atuan.»

«Non più», disse Ged. Guardò in direzione di Tenar, fra le verdi foglie delle cipolle. Aveva la faccia tesa, ansiosa, come se parlasse di una gioia che non riusciva bene ad afferrare. «Adesso c’è un re, a Havnor», disse. «Al centro del mondo. Le profezie si sono avverate. La Runa è integra, e il mondo è riunito. I giorni della pace sono arrivati. Lui…»

S’interruppe e guardò in terra, stringendo i pugni.

«Lui mi ha riportato dalla morte alla vita. Arren di Enlad. Lebannen, nei canti che verranno composti in futuro. Ha assunto il suo nome vero, Lebannen, re di Earthsea.»

«E questa, allora», chiese lei, guardandolo attentamente, «la gioia, la luce?»

Lui non rispose.

C’è un re a Havnor, pensò Tenar, e disse forte: «C’è un re a Havnor!»

L’immagine della bellissima città era rimasta vivissima in lei: le strade larghe, le torri di marmo, i tetti coperti di tegole rosse e di bronzo, le navi dalle bianche vele ancorate nel porto, la meravigliosa sala del trono, trapassata dai raggi di sole come da lame di spada, la ricchezza, la dignità, l’armonia e l’ordine che vi regnavano. Da quel centro luminoso, Tenar vedeva l’ordine allargarsi verso la periferia come una serie di anelli perfetti che si formano su uno specchio d’acqua, come la linea retta di una strada lastricata o la rotta di una nave con il vento in poppa: qualcosa che va come deve andare, portando con sé la pace.

«Hai fatto bene, caro amico», disse Tenar.

Ged fece un piccolo gesto, come per fermare le sue parole, poi si girò e si portò la mano davanti alla bocca. Tenar non sopportava di vederlo piangere. Si chinò sulle sue erbacce. Tirò una foglia, poi un’altra, e la radice si spezzò. Scavò con le mani, cercando la radice dell’erbaccia nel suolo duro, nel buio della terra.

«Goha», disse Therru, con la sua voce debole e roca, dal cancello, e Tenar guardò nella sua direzione. La mezza faccia della bambina era rivolta verso di lei; la guardava sia con l’occhio buono sia con quello cieco. Tenar si chiese: devo dirle che a Havnor c’è un re?

Si alzò e si avvicinò alla bambina perché non si sforzasse troppo le corde vocali per farsi sentire. Faggio le aveva detto che, quando Therru, priva di sensi, era caduta nel fuoco aveva respirato le fiamme. «Le hanno bruciato la voce», aveva spiegato.

«Guardavo Sippy», sussurrò Therru, «ma è uscita dal pascolo. Non riesco a trovarla.»

Era uno dei più lunghi discorsi che avesse fatto. Tremava perché aveva corso e perché si sforzava di non piangere. Non possiamo piangere tutti, si disse Tenar… è una cosa sciocca, non possiamo! «Sparviero!» disse, voltandosi verso di lui, «è scappata una capra.»

Ged si alzò immediatamente e guardò nel recinto.

«Prova nel capanno», disse.

Guardò Therru come se non vedesse le sue orrende ferite, come se non la vedesse affatto: era soltanto una bambina che aveva perso una capra e aveva bisogno di ritrovarla. In quel momento, Ged vedeva solo la capra. «Oppure è andata a unirsi al gregge del villaggio», aggiunse.

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