«Allora, che cosa ha detto?» chiese Tenar.
«’Una donna di Gont.’ Esattamente come hai detto a me.»
«Ma volevano sapere chi dovesse essere il prossimo Arcimago.»
«E non hanno avuto una risposta a quella domanda.»
«Infinita è la sottigliezza dei maghi», citò Tenar, in tono un po’ asciutto.
Ged tagliò con i denti il filo e si avvolse sul dito il pezzo avanzato.
«Ho imparato a cavillare, a Roke», dovette ammettere. «Ma questi non sono cavilli. ‘Una donna di Gont’ non può diventare Arcimago, perché nessuna donna può diventarlo. Per diventarlo, dovrebbe distruggere quello che è. I maghi di Roke sono uomini; il loro Potere è quello degli uomini, la loro conoscenza è quella degli uomini. Magia e mascolinità sono costruiti sulla stessa pietra, ossia il Potere appartiene agli uomini. Se le donne avessero il Potere, gli uomini sarebbero solo delle donne che non possono mettere al mondo i figli. E le donne sarebbero solo uomini con questa facoltà.»
«Ah!» esclamò Tenar e, con astuzia, osservò: «Non sono esistite anche delle regine? Anch’esse avevano il Potere».
«Una regina è solo un re in gonnella», disse Ged.
Lei sbuffò.
«Voglio dire che il Potere glielo danno gli uomini. Le permettono di usare il loro Potere. Ma esso non è della regina. È potente non perché è una donna, ma nonostante il fatto che lo sia.»
Tenar annuì. Raddrizzò la schiena, dopo essere stata curva sull’arcolaio. «Allora», chiese, «qual è il Potere delle donne?»
«Non credo di conoscerlo.»
«Quand’è che una donna ha Potere per il fatto di essere una donna? Con i figli, forse. Per un certo periodo.»
«Nella propria casa, forse.»
Lei si guardò attorno, osservò le pareti di pietra della cucina. «Ma le porte sono chiuse a chiave», osservò.
«Perché siete importanti.»
«Oh, sì. Siamo preziose. Purché si resti prive di Potere… Ricordo ancora il giorno in cui l’ho capito per la prima volta! Kossil mi aveva minacciato… minacciato me, la Sacerdotessa delle Tombe. E capii di non poter fare niente. Io avevo gli onori, ma lei aveva il potere, che le veniva dal Diore, l’uomo. Oh, come me la sono presa! E come mi sono spaventata… Io e Lodola abbiamo parlato di queste cose, una volta, e lei ha chiesto: ‘Perché gli uomini hanno paura delle donne?’»
«Se la propria forza consiste solo nella debolezza altrui, si vive nella paura», le fece notare Ged.
«Sì, ma le donne danno l’impressione di avere paura della propria forza, di temere se stesse.»
«Vi hanno mai insegnato a fidarvi delle vostre forze?» chiese Ged, e mentre parlava giunse Therru, con la legna. Incrociò lo sguardo con quello di Tenar.
«No», disse la donna. «La fiducia non è una materia che ci hanno insegnato.» Guardò la bambina che metteva la legna nella cesta. «Se il Potere fosse fiducia…» riprese. «Mi piace quella parola. Se non ci fossero tutte quelle gerarchie… uno sopra l’altro… re e maestri e maghi e possidenti. Sembra tutto inutile. Il vero Potere, la vera libertà, dovrebbe basarsi sulla fiducia, non sulla forza.»
«Come i bambini si fidano dei genitori», commentò Ged.
Tutt’e due rimasero in silenzio.
«In realtà», riprese poi Ged, «anche la fiducia corrompe. I maghi di Roke si fidano di se stessi e dei compagni. Il loro Potere è puro, niente lo macchia, e perciò credono che quella purezza sia anche saggezza. Non riescono a concepire la possibilità di commettere qualcosa di sbagliato.»
Tenar lo fissò con stupore. Ged non aveva mai parlato di Roke in quel modo, come se ne fosse del tutto all’esterno, come se ne fosse libero del tutto.
«Forse avrebbero bisogno di qualche donna che gliene ricordi la possibilità», commentò lei, e Ged rise.
Tenar rimise in movimento l’arcolaio. «Ancora non mi è chiaro: che cosa impedisce a una donna di diventare Arcimago, visto che può essere regina?»
Therru li stava ascoltando.
«Sì, come la neve bollente e l’aria asciutta», disse Ged, ricordando un proverbio di Gont. «I re ricevono il Potere da altri uomini. Il Potere di un mago è solamente suo.»
«Ed è un Potere maschile. Perché non conosciamo quale sia il Potere delle donne. Capisco. Però, perché non riescono a trovare un Arcimago… di sesso maschile?»
Ged studiò per qualche istante l’orlo sbrindellato dei calzoni. «Be’», disse infine, «se il Maestro degli Schemi non ha risposto alla loro domanda, è perché rispondeva a una domanda che non gli era stata fatta. Forse dovrebbero chiedergli che domanda era.»
«È un indovinello?» chiese Therru.
«Sì», disse Tenar, «ma non conosciamo la domanda. Conosciamo solo la risposta, ed è: ‘Una donna di Gont’.»
«Ce ne sono tante», concluse Therru, dopo averci pensato per qualche momento. Poi, evidentemente soddisfatta, uscì per andare a prendere un altro carico di legna.
Ged la guardò allontanarsi. «’Tutto è cambiato’», disse. «A volte mi chiedo, Tenar, se il regno di Lebannen non sia solo l’inizio. Una porta. E lui il guardiano, che non potrà mai oltrepassarla.»
«È così giovane», disse Tenar, con tenerezza.
«Giovane come Morred quando combatté contro le Navi Nere. Giovane come me quando…» S’interruppe e guardò fuori della finestra, i rami senza foglie e i campi grigi e gelidi. «O come te, Tenar, in quel luogo buio. Che cosa significano la gioventù o la vecchiaia? Non lo so. A volte mi sembra di avere mille anni, altre volte che la mia vita sia una rondine in volo, vista da una fessura della parete. Sono morto e sono rinato, sia nel deserto sia qui sotto il cielo, più di una volta. E la Creazione ci dice che ritorniamo sempre alla nostra fonte, eternamente, e che essa non si prosciuga mai. ‘Solo nella morte è vita…’ Pensavo a questo, quando ero con le capre sulla montagna, e il giorno si prolungava in eterno, ma si aveva la sensazione che la sera giungesse in un attimo, e cosi il mattino dell’indomani. Ho imparato la saggezza delle capre, e così ho finito per chiedermi: per chi è questo mio dolore? Di chi piango la morte? Di Ged l’Arcimago? Perché Falco il pastore deve soffrire e vergognarsi per lui? Che cosa ho fatto, di cui debba vergognarmi?»
«Niente!» esclamò Tenar. «Mai!»
«No, invece», disse Ged. «Ogni grandezza degli uomini si basa sulla vergogna, è fatta di quella. E così Falco il pastore ha pianto per Ged l’Arcimago. E si è preso cura delle capre, anche, come poteva prendersene cura uno della sua età.»
Dopo qualche istante, Tenar sorrise. Disse, timidamente: «Muschio sosteneva che eri un quindicenne».
«Non aveva torto. Ogion mi aveva dato il nome vero in autunno, e l’estate successiva ero a Roke. Chi era quel ragazzo? Un vuoto… Una libertà.»
«Chi è Therru, Ged?»
Lui non rispose, e alla fine Tenar pensò che non le avrebbe più risposto. Poi Ged disse: «Nelle sue condizioni… che libertà può esserci per lei?»
«Ciascuno di noi è la propria libertà, quindi?»
«Credo di sì.»
«Quando avevi il Potere, tu mi sembravi l’uomo più libero che esistesse. Ma a quale costo? Che cosa ti dava quella libertà? E io… io ero stata creata, plasmata come creta, dalla volontà delle donne che servivano gli Antichi Poteri, o che servivano gli uomini che avevano creato tutti i riti, i costumi e i luoghi, non sapevo chi. Poi sono stata libera, con te, per un momento, e anche con Ogion. Ma non era la mìa libertà. Però, mi permetteva la scelta, e io ho scelto. Ho scelto di plasmarmi come creta per servire una fattoria, un marito e dei figli. Sono diventata un vaso, e conosco la forma di quel vaso. Ma non la creta di cui è fatto. La vita mi ha fatto danzare. Conosco la danza, ma non so chi sia il danzatore.»
«E lei», disse Ged, dopo un lungo silenzio, «se dovesse mai danzare…»
«Finiranno per avere paura di lei», sussurrò Tenar. Poi Therru entrò nella cucina, e la conversazione si spostò sulla pasta del pane che lievitava nella madia. Continuarono a parlare a quel modo, tranquillamente e a lungo, passando da un argomento all’altro, per poi ritornare al primo, molte volte per metà di quelle brevi giornate, filando e cucendo insieme, con le parole, le loro vite, gli anni e le azioni e i pensieri che non avevano condiviso. Poi tacevano per riflettere, per lavorare e per sognare, e con loro c’era la bambina silenziosa.