Non so cosa sia successo. Ho avuto un'operazione al cervello? Ma non ho cicatrici, non mi hanno rasato alcuna parte dello scalpo. È stato un caso di emergenza?
L'emozione mi pervade: paura e poi collera, e con essa la bizzarra sensazione che mi sto gonfiando e poi sgonfiando. Quando sono arrabbiato, mi sento più alto e le altre cose paiono più piccole; quando sono impaurito mi sento più piccolo e le altre cose paiono più grandi. Mi balocco con queste emozioni ed è davvero strano percepire il minuscolo cubicolo cambiare dimensioni intorno a me. Non è possibile che le cambi davvero. Ma se fosse così, come farei a saperlo?
Una musica m'inonda la mente all'improvviso, una musica di pianoforte. Dolce, scorrevole, costruita in frasi ordinate… Chiudo gli occhi e di nuovo mi rilasso. Mi sovviene un nome: Chopin. Uno studio… no, lascia fluire la musica, non pensare.
Faccio scorrere le mani su e giù per le braccia, per sentire la struttura della pelle, l'elasticità della peluria. È un gesto calmante, ma non c'è bisogno che continui a farlo.
— Lou! Sei qui? Stai bene? — È Jim, l'inserviente che per tanti giorni si è preso cura di me. La musica si dilegua ma posso sentirla fluire ancora sotto la mia pelle. Mi distende.
— Sto bene — rispondo. Sento che la mia voce è calma. — Avevo solo bisogno di una pausa, tutto qui.
— Meglio che tu venga fuori, amico — dice lui. — Di là stanno cominciando a dare i numeri.
Sospiro, mi alzo e apro la porta. La persistenza degli oggetti le fa conservare la sua forma mentre esco; le pareti e il pavimento rimangono piatti com'è loro dovere, e l'ammiccare della luce sulle superfici che la riflettono non mi disturba. Jim mi sorride. — Allora tutto bene, amico?
— Benone — dico. Il Lou di prima amava la musica. Adoperava la musica per conservare il proprio equilibrio… Mi domando quanta della musica amata dal Lou di prima potrò ancora ricordare.
Janis e la dottoressa Hendricks stanno aspettando nel corridoio. Sorrido a tutt'e due. — Sto benissimo — ripeto. — Davvero avevo solo bisogno di andare al bagno.
— Ma Janis dice che sei caduto — dice la dottoressa.
— Oh, è stato solo un problema di poca importanza — spiego. — Stavo leggendo una storia piuttosto confusa, e riflettere su quella confusione… mi ha confuso le sensazioni, comunque adesso è tutto passato. — Guardo su e giù per il corridoio per assicurarmene. Tutto a posto. — Vorrei parlarle di quanto è accaduto in realtà — dico alla dottoressa. — Mi hanno parlato di operazioni al cranio, ma non ho alcuna cicatrice visibile. E ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel mio cervello.
Lei sporge le labbra e poi annuisce. — Sta bene. Uno dei consulenti ti spiegherà tutto. Intanto posso dirti che il tipo di chirurgia praticato in questo momento non implica lo scavare grossi buchi nel cranio della gente. Janis, fissa un appuntamento per Lou. — Poi la dottoressa se ne va.
Non credo che mi sia molto simpatica. Sento che è una persona che ama tenersi i suoi segreti.
Quando il mio consulente, un allegro giovanotto con una vistosa barba rossa, mi spiega cosa mi hanno fatto, per poco non mi viene un colpo. Come ha potuto il Lou di prima accettare una cosa simile? Vorrei acciuffarlo e scuoterlo, ma adesso lui è me. Io sono il suo futuro come lui è il mio passato. Io sono la luce scagliata nell'universo e lui è l'esplosione da cui sono stato generato. Non dico nulla di questo al consulente, che è un tipo pratico e probabilmente penserebbe che sono pazzo. Continua ad assicurarmi che sono in buone mani e che si prenderanno cura di me; vuole che stia calmo e tranquillo. All'esterno io sono calmissimo e tranquillissimo. All'interno sono diviso tra il Lou di prima, che sta cercando di capire come è stato tessuto il motivo della sua cravatta, e il mio io odierno, che vorrebbe tanto scuotere il Lou di prima e ridere in faccia al consulente e dirgli che non intendo assolutamente trovarmi nelle mani di nessuno e avere chi si prenda cura di me. Queste cose sono ormai alle mie spalle. È troppo tardi per essere al sicuro nel modo in cui lui intende la sicurezza, e mi prenderò cura di me da solo.
Sono disteso a letto con gli occhi chiusi e penso a questa giornata. Di colpo mi trovo sospeso nello spazio, nel buio. Molto lontano occhieggiano minuscole schegge di luce multicolore. So che sono stelle, e quella nebbia luminosa è probabilmente una galassia. Comincia una musica… è ancora Chopin. Una musica lenta, pensosa, malinconica. Qualcosa in mi minore. Poi fa irruzione un'altra musica, che mi dà altre sensazioni: possiede più struttura e più forza, e si alza sotto di me come un'ondata oceanica, solo che questa ondata è fatta di luce.
I colori cambiano. So, senza analizzare la mia certezza, che sto correndo verso quelle stelle lontane, velocemente, sempre più velocemente, finché l'onda di luce mi proietta fuori e io volo a velocità ancora più vertiginosa, come una percezione oscura, verso il centro dello spazio e del tempo.
Quando mi sveglio sono più felice di quanto sia mai stato e non so perché.
La prossima visita che Tom mi fa, lo riconosco e ricordo che è stato già qui. Ho tante cose da dirgli, tante cose da chiedergli. Il Lou di prima pensa che Tom lo abbia conosciuto meglio di qualunque altra persona al mondo. Se potessi vorrei lasciare che il Lou di prima salutasse Tom, ma ormai questo non si può più fare.
— Usciremo di qui tra pochi giorni — dico. — Ho già parlato alla gerente del mio appartamento. Farà riattaccare la corrente e il resto e rimetterà tutto in ordine.
— Stai proprio bene? — chiede lui.
— Benissimo — lo rassicuro. — Grazie per essere venuto a farmi visita tante volte; mi dispiace di non averti riconosciuto da principio.
Tom sembra depresso, posso vedere che ha gli occhi pieni di lacrime e ne è imbarazzato. — Non era colpa tua, Lou.
— No, ma so che tu eri preoccupato per me — dico. Il Lou di prima poteva non averlo saputo, ma io lo so. Posso vedere che Tom è un uomo che ama profondamente i suoi amici e immagino come si è sentito quando non sono riuscito a riconoscerlo.
— Hai già deciso cosa farai? — domanda.
— Volevo chiederti cosa si deve fare per iscriversi a una scuola serale — dico. — Vorrei tornare all'università.
— Buona idea — approva lui. — Io posso certo aiutarti per l'iscrizione. Cos'hai intenzione di studiare?
— Astronomia — dico. — Oppure astrofisica. Non so quale delle due, ma certo qualcosa di simile. Mi piacerebbe andare nello spazio.
Adesso Tom sembra un po' triste, e mi accorgo che il sorriso che mi rivolge è forzato. — Spero che tu ottenga tutto quello che vuoi — dice. Poi, come se non volesse essere invadente, aggiunge: — La scuola serale non ti lascerà molto tempo per la scherma.
— Non credo — dico. — Dovrò vedere come si metteranno le cose. Ma verrò a farti visita, se per te va bene.
Pare sollevato. — Ma certo, Lou. Non voglio perderti di vista.
— Andrà tutto bene — dico.
Lui mi guarda un po' in tralice e poi scuote la testa. — Sai, penso proprio che ce la farai. Davvero lo penso.