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«Ti hanno mandata sulle montagne» disse lui. Stava guardando di fronte a sé, ma adesso girò la testa a fatica e la fissò negli occhi. «In un posto dove avresti incontrato i maz. Non avevo intenzione di farti del male, yoz.»

«Yoz!» sbottò Sutty, un attimo dopo.

Il Controllore aveva distolto di nuovo lo sguardo. Lei osservò la sua faccia gonfia, indecifrabile.

Il Controllore allungò la mano sana e cominciò ad azionare la leva di alimentazione della lampada. La piccola lampadina quadrata all’interno diventò subito più luminosa. Per la centesima volta, in un angolo della mente, Sutty si domandò perché gli akani facessero le lampadine quadrate. Il resto della sua mente, tuttavia, era pieno di ombre, rabbia, odio, disprezzo.

«La tua gente mi ha lasciata andare a Okzat-Ozkat come esca? Uno strumento della vostra ideologia ufficiale? Speravano che li conducessi qui?»

«È quello che ho pensato» rispose il Controllore dopo una pausa.

«Ma tu mi hai detto di stare lontana dai maz!»

«Pensavo fossero pericolosi.»

«Per chi?»

«Per… l’Ekumene. E il mio governo.» Il Controllore aveva usato la vecchia parola, e si corresse: «L’Azienda».

«Non ti capisco, Controllore.»

Lui aveva smesso di azionare la manovella della lampada. Tornò a guardare fisso davanti a sé.

«Il pilota ha detto: "Eccoli là", e siamo saliti lungo il sentiero» disse. «Poi il pilota ha urlato, e ho visto il tuo gruppo sul sentiero. E del fumo dietro di voi, fumo che usciva dalle rocce. Qualcosa ci ha fatto sbandare. Verso la montagna. Contro le rocce. L’elicottero è stato buttato giù. Spinto.»

Teneva la mano sinistra, ferita, con la destra, teso. Stava frenando il proprio tremito.

«Venti catabatici, yoz» disse Sutty sottovoce, dopo qualche attimo di esitazione. «E un’altitudine notevole per un elicottero.»

Lui annuì. Si era detto la stessa cosa. Molte volte, senza dubbio.

«Per loro, questo posto è sacro» fece Sutty.

Da dove veniva quella parola? Lei non la usava. Perché lo stava tormentando? Sbagliato, sbagliato.

«Ascolta, Yara… ti chiami così, vero? Non lasciarti condizionare da vecchie superstizioni putride. Non credo che Madre Silong presti la benché minima attenzione a noi.»

Lui scosse il capo, muto. Forse si era detto anche quello.

Sutty non sapeva cos’altro dirgli. Dopo un lungo silenzio, il Controllore parlò.

«Merito la punizione» disse.

Quelle parole la scossero.

«Be’, l’hai avuta» fece infine Sutty. «E forse sarai punito ancora, in un modo o nell’altro. Come dobbiamo regolarci con te? Dobbiamo deciderlo. L’estate volge al termine. Parlano di partire tra qualche settimana. Fino ad allora, tanto vale che tu la prenda con calma. E ti rimetta in piedi. Perché, in qualsiasi posto tu vada, una volta uscito di qui, non credo che volerai sul vento del Sud.»

Lui la guardò di nuovo. Era visibilmente spaventato. Da quello che lei aveva detto? Dalla colpa, quale che fosse, che l’aveva spinto a dire: «Merito la punizione»? Oppure perché trovarsi inerme tra i nemici era una cosa che spaventava?

Annuì rigido, un unico breve cenno da cui traspariva sofferenza, e disse: «Il mio ginocchio presto sarà guarito».

Mentre riattraversava le caverne, Sutty pensò che, per quanto sembrasse grottesco, c’era qualcosa di fanciullesco in quell’uomo, qualcosa di semplice e puro. Poi si corresse: di semplicistico, non di semplice… e puro, che diavolo significava? Santo, pio, e via dicendo? (Non fare la Madre Teresa con me, ragazzina, le sussurrò nella mente zio Hurree.) Il Controllore era uno sprovveduto e un ingenuo, col suo gergo tipo "nemico dello stato". Un individuo miope che aveva in testa una cosa sola. Un fanatico, come aveva detto Odiedin. Anzi, un terrorista. Un vero e proprio terrorista.

Parlare con lui le aveva guastato l’umore. Si pentì di avergli parlato, di averlo visto. L’ansia e la frustrazione la resero irritabile con gli amici.

Kieri, con cui divideva ancora la tenda, anche se ultimamente non il sacco a pelo, era allegra e affettuosa, ma la sua sicurezza era inaccessibile. Kieri sapeva tutto quello che voleva sapere. Dalla Narrazione voleva solo storie e superstizione. Non le interessava imparare dai maz e non andava mai nelle caverne dei libri. Si era unita al gruppo per puro spirito d’avventura.

Akidan, d’altro canto, era in uno stato di venerazione mista a libidine. La guida Shui era tornata al villaggio poco dopo il loro arrivo alle caverne, lasciandolo solo nella tenda, e il ragazzo si era subito innamorato di maz Unroy Kigno. Le stava appiccicato come un piccolo di minule alla madre, la guardava con occhi adoranti, imparava a memoria ogni sua parola. Per sua sfortuna, le uniche persone del vecchio sistema ad avere una vita sessuale rigorosamente regolata erano i maz. Erano monogami per tutta la vita, fossero o meno con i compagni. I maz che Sutty aveva conosciuto, per quel che poteva vedere, osservavano tutti tale regola. E Akidan, un giovane mite, non aveva in fondo nessuna intenzione di metterla in discussione o alla prova. Era soltanto innamorato cotto, del tutto cotto, una povera vittima dell’agiolatria di origine ormonale.

Unroy era dispiaciuta per lui, ma non glielo lasciava capire. Lo scoraggiava brusca, facendo leva sulla sua autodisciplina, sulla sua erudizione, sul suo desiderio di diventare un maz. Quando l’infatuazione del giovane si era manifestata con troppa evidenza, lei l’aveva redarguito, citando un passo noto del Pergolato: "I due che sono uno non sono due, ma l’uno che è due è uno…". Sembrava un rimprovero piuttosto sottile, ma Akidan era impallidito di vergogna ed era filato via. Da quel momento, era stato infelice. Kieri gli parlava spesso e sembrava incline a consolarlo. Sutty si augurava che lo facesse. Non voleva il fermento e l’influsso di emozioni adolescenziali; voleva pareri da adulto, certezze mature. Sentiva che doveva andare avanti ed era in un vicolo cieco; doveva decidere e non sapeva che decisione prendere.

Il Grembo del Silong era totalmente isolato dal resto del mondo. Nessuna radio né trasmettitori d’altro tipo venivano mai portati lì, per paura che i segnali fossero intercettati. Le notizie potevano arrivare solo dai sentieri di nordest o seguendo la via lunga e impervia di sudest, percorsa dal gruppo di Sutty. A estate così avanzata, era molto difficile che arrivasse qualcun altro; anzi, come aveva detto al Controllore, la gente lì stava già parlando di partire.

Ascoltò i loro piani. Era loro abitudine partire in piccoli gruppi e prendere strade diverse quando il cammino divergeva. Non appena era possibile farlo, si univano alle piccole carovane degli abitanti dei villaggi estivi che scendevano nelle colline pedemontane. In questo modo il pellegrinaggio, il percorso che conduceva alle caverne, era rimasto segreto per quarant’anni.

Era già troppo tardi, le spiegò Odiedin, per tornare indietro lungo il percorso fatto all’andata dal loro gruppo, quello di sudest. Le guide dell’ultimo villaggio estivo erano rientrate quasi subito, e anche così prevedevano di trovare neve e bufere sullo Zubuam. Loro sarebbero dovuti scendere in Amareza, la regione collinare a nordest del Silong, aggirando poi l’estremità della Catena delle Sorgenti, e risalendo infine le colline verso Okzat-Ozkat. A piedi, avrebbero impiegato un paio di mesi. Odiedin pensava che avrebbero potuto farsi dare qualche passaggio dai camion nella zona collinare, anche se per farlo avrebbero dovuto separarsi, dividersi in coppie.

Sembrava tutto spaventoso e inverosimile a Sutty. Un conto era seguire le sue guide sulle montagne, seguire una via nascosta tra le nuvole fino a un luogo sacro segreto; ben altra cosa era vagare come una mendicante, fare l’autostop, anonima e indifesa, nelle vaste campagne di un mondo straniero. Si fidava di Odiedin, certo, però desiderava tantissimo mettersi in contatto con Tong Ov.

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