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E su di loro, pensò Miles, hai scaricato tutta la tensione accumulata in quell’ultima impossibile settimana e in quella notte folle. Miles aveva già visto persone in quello stato di follia.

«Sono ancora vivi?»

«Oh, sì.»

Miles decise che ci avrebbe creduto quando avesse avuto la possibilità di controllare di persona. Il sorriso di Galeni era allarmante, con tutti quei denti lunghi che brillavano nel buio.

«La loro macchina» si intromise Ivan in tono urgente.

«La loro macchina» convenne Miles. «È ancora là? Possiamo arrivarci?»

«Forse» disse Galeni. «Adesso nelle gallerie c’è almeno una squadra di poliziotti. Li ho sentiti.»

«Dobbiamo correre il rischio.»

«Per voi è facile parlare» mormorò Mark in tono tracotante, «voi avete l’immunità diplomatica.»

Miles guardò il suo clone, afferrato da un’ispirazione folle, mentre con il dito sfiorava una tasca interna della sua giacca grigia. «Mark» sussurrò, «ti piacerebbe guadagnare quella nota di credito di centomila dollari betani?»

«Non c’è nessuna nota di credito.»

«Questo è quello che ha detto Ser Galen. Prova a riflettere su quante altre cose si è sbagliato questa sera» affermò Miles, sollevando lo sguardo per vedere che effetto faceva a Galeni sentir nominare il padre; un effetto calmante, a quanto pareva, perché proprio mentre lo guardava, negli occhi del capitano ricomparve quell’espressione meditabonda e pensosa. «Capitano Galeni, quei due cetagandani sono coscienti o almeno possono essere risvegliati?»

«Uno almeno dovrebbe esserlo e a quest’ora magari tutti e due. Perché?»

«Testimoni. Due testimoni, è l’ideale.»

«Ma io credevo che lo scopo di svignarcela invece di arrenderci fosse proprio di non avere testimoni» disse Ivan.

«Penso che sia meglio che io faccia Naismith» proseguì Miles senza dargli retta. «Senza offesa, Mark, ma il tuo accento betano non è ancora perfetto; non arroti a sufficienza le erre finali. E poi tu ti sei esercitato di più nella parte di Lord Vorkosigan.»

Galeni, che aveva afferrato l’idea, sollevò le sopracciglia, annuendo. Anche se il suo viso, quando si girò per guardare Mark, era impenetrabile come sempre, tanto che Mark trasalì. «Esatto. Credo che lei ci debba la sua collaborazione.» E aggiunse a voce bassissima «A me la deve.»

Non era questo il momento di far notare a Galeni quanto a sua volta dovesse a Mark, anche se, incontrandone brevemente lo sguardo, Miles capì che Galeni era perfettamente cosciente che quel cupo debito non era solo suo. Ma il capitano non avrebbe sprecato quell’opportunità.

Sicuro di avere in lui un alleato, l’ammiraglio Naismith disse: «Nella galleria, allora. Faccia strada, capitano.»

Il veicolo terrestre dei cetagandani era parcheggiato all’ombra di un albero, a pochi metri a sinistra dall’uscita del tunnel di risalita che dal sottopassaggio pedonale portava al parco del frangiflutti. Niente polizia in vista da quella parte. Dalla parte nel parco invece, così come aveva detto Galeni, doveva esserci una squadra di due uomini, anche se non si erano arrischiati a controllare: la corsa attraverso le gallerie era già stata abbastanza movimentata, avevano evitato a stento l’incontro con la polizia.

La larga chioma del platano nascondeva la macchina alla vista dei numerosi negozi e appartamenti che si affacciavano su quella stretta strada cittadina e dunque nessuna persona insonne poteva essere stato testimone dell’incontro fatto da Galeni… o almeno Miles lo sperava. L’autostrada che correva sopra e dietro era recintata e cieca, ma Miles si sentiva ugualmente esposto.

Il veicolo non aveva alcun contrassegno dell’ambasciata, né altri particolari insoliti che potessero attirare l’attenzione. Era spoglia, né nuova né vecchia, un po’ sporca. Miles sollevò le sopracciglia ed emise un fischio soffocato alla vista dell’ammaccatura nella fiancata, grande circa quanto la testa di un uomo, e del sangue sparso sull’asfalto, il cui colore rosso risultava per fortuna sbiadito nella penombra.

«Non è stato un po’ rumoroso?» chiese Miles a Galeni indicando il segno sulla fiancata.

«Mm? No, affatto, solo tonfi sordi, nessuno ha gridato.» Dopo una rapida occhiata alla strada e un attimo di attesa per far passare un veicolo, Galeni sollevò con prudenza la bolla a specchio della macchina.

Sul sedile posteriore erano ammucchiate due figure, tenute dritte dal loro stesso equipaggiamento. Il tenente Tabor, in abiti civili, ammiccò al di sopra del bavaglio; accanto a lui era accasciato l’uomo col volto dipinto di azzurro. Miles gli sollevò una palpebra, vide che l’occhio era ancora rovesciato e allora armeggiò alla ricerca della valigetta medica. Ivan caricò Elli e si sedette al posto di guida; Mark scivolò al fianco di Tabor e Galeni si mise a fianco dell’altro prigioniero. Ivan toccò un controllo e il tettuccio si abbassò e si chiuse. In sette là dentro erano una folla.

Miles si sporse al di sopra del sedile anteriore e iniettò una dose di synergine, il rimedio contro lo shock, nel collo del capitano di centuria, che avrebbe dovuto farlo rinvenire e non gli avrebbe certo fatto del male, perché in quel momento così particolare, la vita e il benessere del suo nemico erano molto preziose. Dopo averci pensato, Miles ne somministrò una dose anche a Elli, che emise un gemito rincuorante.

Il veicolo si sollevò e con un sibilo partì. Quando si lasciarono alle spalle la costa e si inoltrarono nel labirinto della città, Miles respirò sollevato; poi aprì il comunicatore e parlò con il suo più puro accento betano: «Nim?»

«Presente, signore.»

«Triangoli sul mio comunicatore e ci segua. Qui abbiamo finito.»

«Vi abbiamo rilevati, signore.»

«Naismith chiude.»

Si appoggiò in grembo la testa di Elli e si voltò a guardare Tabor, che non faceva altro che spostare lo sguardo da Miles a Mark, seduto accanto a lui.

«Salve, Tabor» disse Mark nel suo miglior accento da Vor barrayarano (ma suonava davvero così contraffatto?) «come sta il suo bonsai?»

Tabor si scostò. Il capitano di centuria si mosse, aprendo un poco le palpebre e tentando di mettere a fuoco lo sguardo; poi cercò di muoversi e quando scoprì di essere legato, si riappoggiò allo schienale, non rilassandosi, semplicemente evitando di sprecare le proprie energie in uno sforzo vano.

Galeni si sporse e allentò il bavaglio di Tabor. «Spiacente, Tabor, ma non potete prendere l’ammiraglio Naismith, non qui sulla Terra, almeno. Può passare parola ai suoi superiori: l’ammiraglio si trova sotto la protezione della nostra ambasciata fino a quando la sua flotta non lascerà l’orbita. Fa parte del prezzo concordato per l’aiuto che ha prestato all’ambasciata barrayarana nella ricerca dei komarrani che avevano sequestrato dei membri del nostro personale. Quindi rinunciate.»

Tabor roteò gli occhi mentre sputava fuori il bavaglio, muoveva la mascella e deglutiva. «Voi lavorate insieme?» gracchiò.

«Sfortunatamente» ringhiò Mark.

«Un mercenario» cantilenò Miles, «va dove può.»

«Lei ha commesso un errore» sibilò il capitano di centuria, «quando ha accettato il contratto contro di noi a Dagoola.»

«Può dirlo forte» convenne Miles tutto allegro. «Dopo che abbiamo salvato il loro maledetto esercito ci hanno fregati di brutto, dandoci solo la metà del compenso pattuito. Immagino che Cetaganda non ci assolderebbe per dargli a loro volta la caccia, vero? No, eh? Purtroppo non posso permettermi la vendetta personale, almeno per il momento. Altrimenti non mi sarei fatto assumere da …» e digrignò i denti in un sorriso cattivo verso Mark, che lo ricambiò di cuore, «… da questi vecchi amici.»

«Quindi lei è davvero un clone» sussurrò Tabor, fissando il leggendario comandante dei mercenari. «Noi credevamo…» e tacque.

«Per anni abbiamo pensato che fosse una vostra creatura» disse Mark, come Lord Vorkosigan.

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