«Allora sarei tuo prigioniero» mormorò Mark con voce soffocata dalla rabbia alimentata dalla paura. «Morto adesso, morto dopo, che differenza fa? Alla fine ho capito a cosa ti serve un clone.»
Mark si vedeva come una banca di pezzi di ricambio ambulanti, Miles ne era sicuro. Sospirò e gettò un’occhiata al suo cronometro. «Secondo l’orario di Galen, restano ancora sette minuti.»
Una strana espressione attraversò il volto di Mark. «Ivan non è su, è giù, da dove siamo venuti.»
«Ah?» Miles si arrischiò a sbirciare nel tunnel di salita: lo scalatore era uscito ad un altro livello. I cacciatori stavano svolgendo un lavoro molto accurato e quando fossero arrivati all’ultimo piano, non avrebbero più avuto dubbi sulla posizione della loro preda.
Miles indossava ancora l’imbracatura. Piano piano, cercando di non farla tintinnare, si sporse in avanti e assicurò gli uncini alla sbarra di sicurezza, tirandoli per controllare la tenuta. «Così vuoi scendere, eh? Be’, posso accontentarti. Ma è meglio che tu abbia detto la verità, riguardo a Ivan, perché se muore, ti farò l’autopsia con le mie mani, cuore e fegato, bistecche e fettine.»
Si chinò, regolò la velocità di srotolamento del rocchetto e il punto di fermata e si mise in posizione sotto la sbarra, pronto a scendere. «Montami in spalla.»
«Non mi dai un’imbracatura?»
Miles guardò in basso, alle sue spalle e sorrise. «Tu rimbalzi meglio di me.»
Con aria estremamente dubbiosa, Mark rimise lo storditore nella fondina, scivolò sulla schiena di Miles e con molta cautela gli passò le braccia e le gambe attorno al corpo.
«Farai meglio a tenerti più stretto; la decelerazione in fondo sarà piuttosto brusca. E non strillare mentre scendiamo, potresti attirare l’attenzione.»
La stretta di Mark si fece convulsa. Miles controllò ancora una volta che non vi fossero ospiti indesiderati (il tunnel era sempre vuoto) e si lasciò cadere oltre il bordo.
Il peso di entrambi raddoppiò la spinta e caddero a velocità vertiginosa per quattro piani, nel silenzio quasi totale… Miles sentiva lo stomaco in bocca e le pareti del pozzo di salita erano solo una macchia di colore… poi la spoletta cominciò a stridere, opponendo resistenza alla spinta. Le cinghie dell’imbracatura si tesero e la presa a mani intrecciate di Mark attorno al collo di Miles cominciò a cedere. Miles allora sollevò una mano e afferrò il polso di Mark. Frenarono e si arrestarono con un sobbalzo a pochi centimetri dal pavimento del tunnel, di nuovo nel ventre della montagna di sintocemento. Miles aveva le orecchie tappate.
Il rumore di quella discesa vertiginosa era parso mostruoso ai suoi sensi esacerbati, ma nessuna testa curiosa si sporse dai piani superiori e nessuna arma crepitò verso di loro. Entrambi si allontanarono dalla linea visuale, riparandosi nel piccolo ingresso antistante il corridoio che portava verso l’uscita. Miles premette il pulsante che sganciava gli uncini e riavvolse la spoletta. Il filo non fece alcun rumore, ma i ganci tintinnarono quando toccarono il pavimento, e Miles trasalì.
«Da quella parte» disse Mark indicando a destra. Si avviarono di corsa fianco a fianco lungo il corridoio. Una vibrazione profonda e sorda piano piano annullò tutti i rumori più lievi. La stazione di pompaggio che ronzava sommessa quando Miles era passato là davanti la prima volta, adesso funzionava a piena potenza, portando il livello del Tamigi a quello dell’alta marea, per mezzo di tubature nascoste. La stazione seguente, prima buia e silenziosa, era adesso illuminata e pronta ad entrare in azione.
Mark si fermò. «Qui.»
«Dove?»
Mark indicò con la mano. «Ogni stanza di pompaggio ha un portello di accesso per le riparazioni e la pulizia. Lo abbiamo messo lì.»
Miles imprecò.
La stanza di pompaggio aveva le dimensioni di un grosso sgabuzzino, che sigillato, diventava buio, freddo, puzzolente, e silenzioso, mortalmente silenzioso. Fino a quando lo scroscio dell’acqua che saliva e entrava con forza e violenza immani non lo trasformava in una camera della morte. E allora l’acqua si sarebbe precipitata dentro a riempire le orecchie, il naso, gli occhi sbarrati, a riempire la stanza sempre più in alto, sempre più in alto, senza lasciare neppure la più piccola sacca d’aria per la bocca affamata; si sarebbe precipitata dentro, sballottando e schiacciando senza sosta e senza pietà il corpo, ribollendo contro le pareti spesse e impenetrabili, massacrando il volto fino a renderlo irriconoscibile, fino a quando, con il riflusso della marea, le acque si sarebbero ritirate, lasciando… lasciando solo qualcosa privo di valore, qualcosa che avrebbe intasato la condotta.
«Tu…» sibilò Miles fissando Mark con occhi furenti, «tu ti sei prestato a questo?»
Mark si stropicciò le mani con un gesto nervoso, indietreggiando. «Adesso sei qui… ti ho portato qui, ti avevo promesso che lo avrei fatto…»
«Non ti pare una punizione un po’ troppo severa per un uomo che non ha fatto altro che russare un po’ e tenerti sveglio una notte?» Miles si voltò, disgustato e cominciò a premere i pulsanti di controllo del portello. L’ultima operazione andava fatta a mano, girando la sbarra che apriva il portello. Quando Miles spinse la pesante porta verso l’interno, da qualche parte cominciò a suonare un allarme.
«Ivan?»
Il grido che giunse dall’interno fu quasi inudibile.
Miles si sporse e accese la torcia. Il portello si trovava quasi alla sommità della camera di pompaggio e Miles vide il volto cereo e sporco di Ivan mezzo metro più in basso.
«Tu!» esclamò Ivan con voce carica d’odio, facendo un passo indietro e scivolando sulla melma.
«No, non lui» lo corresse Miles. «Io.»
«Eh?» Il volto di Ivan era esausto, segnato dalle rughe, allo stremo; Miles aveva visto la stessa espressione sul viso degli uomini che erano rimasti troppo a lungo in prima linea, uomini che avevano quasi perso la capacità di pensare coerentemente.
Lanciò in basso l’insostituibile imbracatura (rabbrividendo al pensiero che quando era sulla Triumph aveva quasi deciso di non includerla nell’equipaggiamento da portare con sé) e tenne salda la spoletta. «Pronto a salire?»
Ivan mosse le labbra in un mormorio inarticolato e si avvolse l’imbracatura attorno a un braccio. Miles premette il pulsante e Ivan si alzò. Miles lo aiutò ad attraversare carponi il portello, poi Ivan si rimise in piedi ansimando, con le mani sulle ginocchia, per sostenersi. L’uniforme verde era umida, stropicciata, ricoperta di melma, le mani graffiate e gonfie. Doveva aver preso a pugni e graffiato la parete, gridando fino a sgolarsi nel buio, senza che nessuno lo sentisse…
Miles richiuse il portello stagno, che tornò al suo posto e tirò la sbarra manuale di bloccaggio. L’allarme smise di suonare. Ricollegati i circuiti di sicurezza, la pompa si rimise in moto e dalla camera di pompaggio provenne solo un orribile sibilo quasi inudibile. Ivan si mise a sedere pesantemente e si nascose il volto tra le mani.
Preoccupato, Miles si inginocchiò accanto a lui. Ivan sollevò il capo e esibì un sorriso tremulo. «Credo» ansimò, «che farò della claustrofobia il mio hobby, d’ora in avanti.»
Miles sorrise sollevato e gli diede una pacca sulla spalla, poi si alzò e si voltò: Mark era sparito.
Con un’imprecazione frustrata, Miles sollevò il comunicatore da polso. «Quinn? Quinn!!» Si spostò in corridoio, scrutò in entrambe le direzioni e ascoltò attentamente: una debole eco di passi in corsa stava svanendo in lontananza, nella direzione opposta alla torre di guardia infestata dai barrayarani. «Piccolo stronzo» mormorò Miles. «Che vada al diavolo.» Sintonizzò il comunicatore sulla frequenza della pattuglia aerea. «Sergente Nim? Qui Naismith.»
«Sissignore.»
«Ho perso il contatto con il comandante Quinn; veda se riesce a contattarla lei. Se non riesce, inizi a cercarla. L’ultima volta che l’ho vista era a piedi all’interno del frangiflutti, a metà strada tra la Torre Sei e la Sette, diretta a sud.»