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«La sua vita è in pericolo adesso ed anche quella di Gwen», disse Vikary. «Bisogna dirglielo».

«Tutto?».

«La sciarada è finita», disse Vikary.

Ruark e Gwen parlarono contemporaneamente.

«Jaan, che cosa…», cominciò lei.

«Sciarada, vita, caccia, ma cosa diavolo succede? Parlate!».

Jaan Vikary si voltò e glielo disse.

7

«Dirk, Dirk, lei non può parlare seriamente. No, non ci credo. Fino ad adesso avevo pensato sempre che, be’ sì, che lei fosse migliore di loro. E adesso mi viene a parlare così? No, sto sognando. Questa è assoluta follia!». Ruark si era un po’ ripreso. Con la sua vestaglia lunga, di seta verde ricamata con dei gufi, pareva più lui, anche se pareva tristemente fuori posto in mezzo alla confusione del laboratorio. Si era seduto su di uno sgabello alto e voltava la schiena agli scuri schermi rettangolari del quadro di comando del computer; i piedi calzati di pantofole erano incrociati alle caviglie e le mani grassocce tenevano un bicchiere alto, gelato, con il verde vino Kimdissi. La bottiglia era dietro di lui, messa vicina a due bicchieri vuoti.

Dirk era seduto su di una grande tavola da lavoro di plastica, con le gambe ripiegate sotto di sé ed il gomito appoggiato su di un pacco di sensori. Si era fatto un po’ di spazio spostando in là il pacco e togliendo di mezzo una serie di fotografie su carta. La stanza era in un caos incredibile. «Non vedo nessuna follia», disse testardamente. I suoi occhi vagavano per la stanza anche mentre continuava a parlare. Non era mai stato prima d’ora nel laboratorio. Era più o meno grande come il soggiorno nell’appartamento dei Kavalari, però pareva molto più piccolo. Contro una parete era allineata una batteria di piccoli computer. Dall’altra parte c’era una gigantesca mappa di Worlorn, tracciata in una dozzina di colori diversi, piena di spilli di forma diversa infilati dappertutto e diversi segnalini. Nel mezzo c’erano tre tavoli da lavoro. Era qui che Gwen e Ruark mettevano assieme i loro pezzettini di conoscenza dopo averli cacciati nelle foreste del morente pianeta del festival, ma a Dirk pareva più un quartier generale di tipo militare.

Dirk non sapeva ancora bene perché loro due fossero là. Dopo la lunga spiegazione di Vikary e l’acrimoniosa discussione che era seguita tra Ruark ed i due Kavalari, il Kimdissi era sceso nelle sue stanze, battendo vistosamente i piedi, e si era portato dietro Dirk. Non era sembrato il momento giusto per parlare con Gwen. Ma non appena Ruark si era cambiato d’abito e si era calmato i nervi con una buona sorsata di vino aveva insistito perché Dirk lo accompagnasse nel laboratorio. Si era portato dietro tre bicchieri, ma Ruark era il solo che beveva. Dirk si ricordava ancora della volta precedente e poi doveva pensare all’indomani; doveva essere scattante. Tra l’altro, se il vino Kimdissi si accordava con quello Kavalar allo stesso modo in cui i Kimdissi andavano d’accordo con i Kavalari, sarebbe stato un vero e proprio suicidio berli uno dopo l’altro.

Per cui Ruark bevve da solo. «La follia», disse il Kimdissi dopo aver sorseggiato un po’ di roba verde, «consiste nel duellare come i Kavalari. L’ho già detto, me ne ricordo bene, non riesco a crederci! Jaantony, sì, Garsey di sicuro e naturalmente quei Braith. Animali xenofobi, gente violenta. Ma lei, ah! Dirk, lei, un uomo di Avalon, non è cosa degna di lei. Possibile che parli seriamente? Ma mi dica un po’, non riesco a capire. Uno di Avalon! Lei che è cresciuto assieme all’Accademia della Sapienza Umana, sì, assieme all’Istituto di Avalon per lo Studio delle Intelligenze Non-Umane, anche quello. Il mondo di Tommaso Chung, il posto in cui è nato il Rilevamento Kleronomas, tutta quella storia e quella sapienza che le stava attorno, più di quanta ce ne sia in tutti gli altri posti tranne forse Vecchia Terra o Newholme forse. Lei ha viaggiato, è colto, ha visto un mucchio di pianeti diversi, un sacco di gente sparsa qui e là. Sì! Lei lo sa meglio di me. Deve saperlo, no! Sì!».

Dirk si accigliò. «Arkin, lei non capisce. Non sono stato io a cercare questo duello. È stato uno sbaglio, o qualcosa del genere. Ho cercato di chiedere scusa, ma Bretan non mi ha voluto ascoltare. Che cosa accidenti potevo fare?».

«Fare? Ma come, filarsela, si capisce. Poteva prendersi la dolce Gwen e filarsela; lasciare Worlorn il più in fretta possibile. Lei appartiene a Gwen, Dirk, lei lo sa, vero? E Gwen ha bisogno di uno come lei, sì, nessun altro andrebbe bene. E lei come la aiuta quella ragazza? Comportandosi in modo riprovevole come fa Jaan? Suicidandosi? Eh? Me lo dica Dirk, me lo dica».

La cosa si faceva di nuovo tutta confusa. Quando aveva bevuto con Janacek e Vikary, tutto era sembrato così chiaro e semplice da accettare. Ma adesso Ruark diceva che era tutto sbagliato. «No so», rispose Dirk. «Voglio dire, ho rifiutato la protezione di Jaan. Per cui devo proteggermi da solo, le pare? In fondo di chi è la responsabilità? Sono io che ho fatto le scelte, eccetera; il duello è ormai combinato. Non posso ritrarmi facilmente ormai».

«Ma certo che può», disse Ruark. «Chi è che la può fermare? La legge, eh? Non c’è nessuna legge su Worlorn, no, nessuna. Assolutamente vero! Ci potrebbero forse dare la caccia queste bestie se ci fosse una legge? No, ma non c’è legge, per cui ci sono guai per tutti, ma lei non è costretto al duello se non lo vuole».

Si apri la porta e Dirk si voltò nel momento in cui entrava Gwen. Dirk aggrottò la fronte e Ruark si illuminò. «Ah, Gwen», disse il Kimdissi, «vieni qui con me, cerca di riportare un po’ di buonsenso in t’Larien. Questo gran sciocco ha intenzione di duellare, vero, peggio che se fosse Garsey».

Gwen venne avanti e rimase in piedi in mezzo a loro. Indossava pantaloni di tessuto camaleontino (al momento erano grigio scuro) ed un maglione nero, con una sciarpa verde allacciata ai capelli. La faccia profumava ancora di foresta ed era seria. «Ho detto loro che venivo giù ad elaborare dei dati», disse e la punta della lingua si muoveva nervosamente sulle labbra. «Non so cosa dire. Ho chiesto a Garse di Bretan Braith Lantry. Dirk, ci sono buone possibilità che lui ti uccida».

Le sue parole lo raggelarono. Chissà perché, ma sentirselo dire da Gwen gli pareva diverso. «Lo so», disse. «Non cambia niente Gwen. Cioè, se volevo starmene al sicuro, avrei potuto restare korariel di Ferrogiada, giusto?».

Lei annuì. «Sì. Ma tu hai rifiutato. Perché?».

«Che cosa avevi detto nella foresta? E dopo, anche? Sui nomi? Non volevo diventare proprietà di qualcuno, Gwen. Io non sono korariel».

La osservò. Per un istante brevissimo il suo viso si oscurò e gli occhi le corsero alla giada-e-argento. «Capisco», disse con una voce che era quasi un sussurro.

«Be’, io no», disse Ruark sbuffando. «Allora, essere korariel. Che cosa sarà mai? Non è altro che una parola! In ogni modo si è vivi, eh?».

Gwen lo guardò, appollaiato in alto sullo sgabello. Pareva vagamente comico con la lunga vestaglia, aggrappato al suo bicchiere e con quel cipiglio. «No, Arkin», disse lei. «Anch’io ho fatto quest’errore. Anch’io pensavo che betheyn fosse solo una parola».

Lui arrossì. «Va bene, allora! Quindi Dirk non è korariel, bene, non è proprietà di nessuno. Ciò non significa che debba duellare, no, assolutamente no. Il codice di onore dei Kavalari è una cosa senza senso, veramente una grande, incommensurabile stupidaggine. Forse che lei vuole essere uno stupido, Dirk? Morire da stupido?».

«No», disse Dirk. Le parole di Ruark lo sconvolgevano. Lui non credeva nel codice di Alto Kavalaan. E allora? Non ne era affatto convinto. Forse voleva provare qualcosa, pensò, ma non sapeva che cosa e a chi. «Devo farlo, ecco tutto. È la cosa giusta da farsi».

«Parole!», disse Ruark.

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