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La maggior parte di queste informazioni le sapevo già quando Dak mi riferì cos’avevano fatto a Bonforte, e il resto me lo andai a cercare nella copia dell’Enciclopedia Batavia che avevamo a bordo. Se vi interessano ulteriori particolari, andate a consultare le voci "Integrazione mentale" e "Tortura".

Scossi la testa, come a scacciare gli incubi che le sue parole avevano evocato. — E ci sono possibilità di guarigione?

— Il professore dice che la droga non danneggia il tessuto cerebrale, ma si limita a inibirne le funzioni. Dice che alla fine la circolazione sanguigna riesce a raccogliere e a portar via tutta la droga; una volta raggiunti i reni viene espulsa dal corpo senza far danni. Ma ci vuol tempo. — Dak tacque, poi mi guardò fisso e disse: — Capo?

— Eh? Mi pare sia ora di smetterla con questa faccenda del "Capo", no? Ormai è tornato lui.

— Ecco, volevo proprio parlarle di questo. Le darebbe fastidio continuare la sostituzione ancora per qualche tempo?

— Ma perché? Qui a bordo siamo tra amici.

— Non è del tutto vero. Lorenzo, siamo riusciti a tenere maledettamente segreta la cosa. La sappiamo io, lei… — contava sulle dita — poi il professore, Rog, Bill. Già, bisogna contare anche Penny, naturalmente. E c’è anche un uomo, sulla Terra, un certo Langston che lei non ha mai visto. Credo che Jimmie Washington abbia dei sospetti, ma quello non parla. È un tipo talmente abbottonato da non dire l’ora neppure a sua madre. Non sappiamo quante persone abbiano preso parte, direttamente o indirettamente, al rapimento, ma le assicuro che non possono essere molte. Comunque, loro non oseranno mai parlare… e il buffo della cosa è che non possono dimostrare che il Capo è rimasto assente, neppure se lo volessero fare. Voglio dire questo: qui sulla Tom Paine, equipaggio e servitù varia non sono al corrente dell’accaduto. Senta, vecchio marpione, che ne direbbe di continuare ancora per un po’, di farsi vedere tutti i giorni dalla ciurma e dalle dattilografe di Jimmie Washington, e così via? Finché lui non starà meglio, voglio dire? Eh?

— Uhm… non vedo perché non potrei farlo. Quanto crede che ci vorrà?

— La durata del viaggio di ritorno. Ce la prenderemo comoda, a bassa accelerazione. Sarà un viaggio che lei si godrà in pieno.

— D’accordo. Dak, questa prestazione non l’aggiunga al mio onorario; la faccio gratis, perché il lavaggio del cervello è una cosa che mi ripugna.

Dak balzò in piedi e venne a darmi una manata sulla spalla. — Lei mi va proprio a genio, Lorenzo. E non si preoccupi per la paga. Non avrà da lamentarsi.

Poi, cambiando modi: — Benissimo, Capo. Ci vedremo domattina, onorevole.

Ma una cosa tira l’altra. L’accelerazione in cui era entrata l’astronave con il ritorno di Dak serviva semplicemente a farci cambiare orbita, allontanandoci dal pianeta fino a un punto dove fosse poco probabile che le agenzie di stampa mandassero un traghetto per ulteriori interviste. Mi destai in caduta libera, e mi riaddormentai con l’aiuto di una compressa. La mattina dopo, al mio risveglio, riuscii lo stesso a mandar giù la colazione. Poco dopo arrivò Penny. — Buongiorno, onorevole Bonforte.

— Buongiorno, Penny. — Piegai il capo in direzione della cabina degli ospiti. — Qualche novità?

— No, signore. Sempre lo stesso. Il capitano le manda i suoi omaggi e le dice, se non le arreca troppo disturbo, di recarsi nella sua cabina.

— Niente affatto. Vengo subito. — Penny mi accompagnò ed entrò con me. Insieme con Dak, che si era appollaiato sulla sedia, stringendone le gambe con le caviglie per evitare di galleggiare nell’aria, c’erano anche Rog e Bill, legati alle cuccette.

Dak si guardò intorno e disse: — Grazie per essere venuto, Capo. Abbiamo bisogno d’aiuto.

— Buongiorno a tutti. Di che si tratta?

Clifton rispose al mio saluto con la sua solita deferenza cortese e mi chiamò "Capo"; Corpsman si limitò a un cenno. Parlò Dak: — Per terminare la cosa in bello stile, lei dovrebbe mostrarsi in pubblico ancora una volta.

— Eh? Credevo…

— No, poca roba. — Le reti stereovisive si aspettavano che oggi lei facesse un discorso importante di commento alla cerimonia di ieri. Pensavo che Rog intendesse rimandarlo, ma Bill ha già scritto tutto il discorso. La domanda è questa: lei sarebbe disposto a pronunciarlo?

L’ho sempre detto, io, che il guaio di portarsi a casa un gatto è che si finisce con una fila di micini. — Dove? — mormorai. — A Goddard City?

— Oh, no, se ne rimarrà comodo nella sua cabina. Il discorso verrà trasmesso a Phobos, e di qui a Marte che lo immetterà nel circuito principale per New Batavia, dove le reti terrestri lo invieranno a Venere, Ganimede eccetera. In quattro ore raggiungerà tutti i punti del Sistema Solare, ma lei non avrà bisogno di muoversi dalla cabina.

C’è sempre una tentazione irresistibile, quando si sente parlare delle reti stereovisive interplanetarie. Io ero riuscito a comparirvi una volta sola, ma quella volta il mio atto era stato talmente tagliato che la mia faccia si era vista solo per ventisette secondi esatti. Ora, avere una trasmissione tutta per me…

Dak ebbe l’impressione d’una mia riluttanza, e s’affrettò ad aggiungere: — Non le costerà nessuna fatica, dato che qui a bordo della Tom Paine abbiamo un impianto di registrazione completo. Riprenderemo il discorso e poi lo proietteremo, nel caso occorra apportare qualche taglio.

— Be’… accetto. Ha qui il testo, Bill?

— Sì.

— Me lo faccia controllare.

— Cosa intende dire? Lo avrà abbastanza in anticipo.

— È quello che ha in mano ora?

— Be’ sì.

— Allora me lo faccia leggere.

Con aria seccata, Corpsman rispose: — Glielo farò avere un’ora prima della registrazione. Questi discorsi vanno meglio quando suonano spontanei.

— Suonare spontanei è solo questione di attenta preparazione, Bill. Sono cose che so benissimo. È il mio mestiere.

— Ieri, allo spazioporto, lei se l’è cavata bene senza bisogno di prove. Quella di oggi è la stessa solfa; voglio che lei faccia come ieri.

Più Corpsman insisteva, più prepotente sentivo affiorare in me la personalità di Bonforte. Credo che Clifton si fosse accorto che stavo per esplodere, perché intervenne dicendo: — Oh, per l’amor di Dio, Bill. Dagli il discorso.

Corpsman sbuffò e mi lanciò il mazzo dei fogli. Poiché eravamo in caduta libera, fluttuarono sparpagliandosi nell’aria. Penny li raccolse, li rimise in ordine, e me li passò. La ringraziai e, senza dire parola, mi misi a scorrerli.

Lessi il discorso in una frazione del tempo che mi sarebbe occorso per pronunciarlo. Giunto alla fine, alzai gli occhi.

— Be’? — mi domandò Rog.

— Circa cinque minuti del discorso sono occupati dalla relazione sulla cerimonia dell’adozione. Il resto sono parole a sostegno della politica del Partito espansionista. Suppergiù le stesse cose che ho sentito nei discorsi che m’avete dato da studiare.

— Già — convenne Clifton. — L’adozione ci serve come esca per poter esporre anche il resto. Come lei saprà, tra non molto abbiamo intenzione di costringere il governo a chiedere il voto di fiducia.

— Comprendo benissimo. È un’occasione da non perdersi per battere sulla grancassa. Be’, è tutto a posto, ma…

— "Ma" cosa? Cos’è che la preoccupa?

— Ecco… è la resa del personaggio. Ci sono taluni punti in cui occorre cambiare le parole. Non è il modo in cui si esprimerebbe lui.

Corpsman sbottò, pronunciando una parola che non si dovrebbe mai dire in presenza di una signora. Io gli lanciai un’occhiata gelida. — Mi stia a sentire bene, Smythe — proseguì. — Chi può insegnarci la maniera in cui Bonforte direbbe o non direbbe una data cosa? Lei? Oppure l’uomo che da quattro anni gli scrive i discorsi?

Cercando di dominarmi, dovetti constatare che il mio avversario aveva segnato un punto a suo favore. — Ciò nondimeno, si dà il caso — gli risposi — che una frase, che sembra bellissima a vederla scritta, suoni male una volta che la si pronunci. Ho avuto modo di vedere come l’onorevole Bonforte sia un magnifico oratore. Appartiene alla categoria dei Webster, dei Churchill, dei Demostene… una grandeur trascinante che s’esprime mediante parole semplici. Prendiamo ad esempio la parola "intransigente", da lei scritta ben due volte nel discorso. È una parola che potrei dire io, che ho un debole per le parole lunghe; mi piace sfoggiare la mia erudizione letteraria. Ma l’onorevole Bonforte direbbe invece "testone", o "cocciuto", o "ostinato". Il motivo, ovviamente, è che lui sa benissimo che queste parole trasmettono le emozioni in modo più immediato ed efficace.

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