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Tuttavia non vedeva l'ora d'incontrare suo padre.

Dai suoi studi, Alec sapeva che Coalfield era un piccolo centro, però pareva enorme confronto alla base lunare. Tanti edifici in superficie, all'aperto! E tutti diversi! Alcuni a un piano, altri a tre, con le facciate di mattoni, o di legno o di blocchi di pietra. Le finestre lo guardavano, vuote, buie, misteriose. Strada, dopo strada, dopo strada, incroci, diramazioni ogni cento metri o pressappoco.

Ma vuote. Morte. Nessuno ci viveva. Non c'era nessuno in strada. Niente veicoli. Niente in vista a parte le case silenziose e i mulinelli di polvere sollevati dal vento.

Si voltò per guardare Will, appollaiato sul parafango opposto. — La città è stata abbandonata dopo l'esplosione solare — gli spiegò Will. — Ogni tanto ci viene qualcuno, ma non per abitarci. Il terreno non è adatto alla coltivazione ed è troppo difficile difendere la città dalle scorrerie dei banditi.

— Come fai a sapere dov'è mio padre?

Will scoppiò in una sonora risata. — Oh, sarà al solito posto.

Il solito posto era un edificio di mattoni a un piano con un'insegna sulla facciata che diceva: UFFICIO POSTALE U.S. — COALFIELD, TENN. — 33719.

Will propose di fare disporre le autoblindo intorno all'edificio in postazione difensiva. Alec trasmise l'ordine a Jameson, poi si spostò con la sua autoblindo nel cortile sul retro dov'era parcheggiato un veicolo scoperto basso e largo, nel quale Alec riconobbe una jeep, per averla vista nei microfilm di storia.

Mentre scendeva a terra, si chiese dove suo padre trovasse il carburante. Se doveva fare lunghi viaggi dovevano esserci dei depositi situati lungo la strada. In quella sopraggiunse Will Russo che presolo per un braccio lo pilotò verso una porta che da tempo aveva perso i battenti.

Dentro era buio. Percorsero uno stretto corridoio, svoltarono un angolo… Ed eccolo!

Stava in piedi al centro di un ampio locale, circondato da scaffali vuoti e sedie e tavoli rotti e malandati. Mancava parte del tetto e attraverso lo squarcio penetrava la luce del sole. Il pulviscolo si muoveva pigramente nell'aria immobile. Per quanto la stanza fosse grande, Douglas Morgan dava l'impressione di riempirla tutta. Era alto, grosso, con spalle e torace ampi. Will Russo era pressappoco della stessa taglia, ma mentre Will pareva un grosso cucciolo allegro e gioviale, Douglas Morgan sembrava un enorme orso grigio.

Aveva la mascella quadrata, capelli grigioferro alti sulla fronte ampia, che scendeva a incorniciare la mascella volitiva unendosi alla barba grigia squadrata. Gli occhi azzurri avevano la durezza dell'acciaio. Adesso stavano fissando senza battere ciglio Alec, che s'era immobilizzato sotto quello sguardo.

Non mi piace per niente pensò Alec. E non gli somiglio. Forse mi odia per questo.

— Sei Alec, vero? — La voce era forte, imperiosa, anche quando conversava. — Hai proprio i geni di tua madre.

E i tuoi no?, si chiese Alec. — Sì, sono Alec — rispose.

— Be', avvicinati e lasciati guardare. Non ti mordo.

Alec si avvicinò lentamente a suo padre. Era un gigante, una montagna d'uomo. Si scrutarono a vicenda. Nessuno dei due tese la mano. Nonostante il sole che filtrava attraverso il tetto squarciato, Alec aveva freddo.

— È un buon combattente. — La voce di Will interruppe il duello di sguardi. — Mi ha aiutato a catturare un pericoloso nido di mortai. Si è comportato molto bene.

— È già qualcosa — commentò Douglas.

— Ma dopo ho vomitato — aggiunse Alec.

Douglas inarcò le sopracciglia. — Davvero? Hai l'anima sensibile, eh? Be'… ammazzare un uomo non è uno scherzo. Sii contento di essere tu quello che è sopravvissuto e ha vomitato, e non quello per il quale hai vomitato.

— Perché non ci sediamo a bere qualcosa? — propose Will. — Il viaggio è stato lungo e soprattutto polveroso, e poi ho idea che si debba brindare.

— Brindare a che? — chiese Douglas.

— A questa riunione di famiglia.

— Ah, dici? — Douglas sfoderò un sorrisetto sardonico. — Certo. Naturalmente durante il viaggio ti sarai procurato qualcosa di forte. Stappa la bottiglia e beviamo.

— Ce l'ho nello zaino — disse Will avviandosi alla porta.

— Mi spiace di non avere fatto ripulire la stanza e di non averla decorata per la grande occasione — disse Douglas ad Alec. — Eh, il mobilio è un po' carente. Ti spiace metterti a sedere lì? — e indicò il pavimento vicino a un banco di legno tutto scheggiato e mancante di alcuni pezzi che correva lungo una parete. Alec alzò le spalle e si accoccolò sui talloni. Douglas lo imitò, con una certa fatica. — Mi sono preso i reumatismi durante le piogge primaverili — disse. — Non riesco a farmeli passare.

Will tornò con una grossa bottiglia di metallo. Si mise a sedere di fronte a Douglas e Alec e svitò il tappo annusando il contenuto.

— Puah! Non dovevo tenerla al sole.

Douglas allungò la mano, prese la bottiglia e annusò a sua volta: — Scommetto che con un gallone di questa roba potrei fare cinquanta "clic" con la mia jeep. — Passò la bottiglia ad Alec. — Forza, sei tu l'ospite d'onore. Bevi per primo. Se sopravvivrai l'assaggeremo anche noi.

— Non è poi male — disse Will. — Il contadino che me l'ha venduta mi ha giurato di averla distillata l'estate scorsa.

Alec si portò la bottiglia alle labbra. Il vapore che ne saliva gli fece lacrimare gli occhi. Bevve un sorso: bruciava e aveva un pessimo sapore. Non tossire! ordinò a se stesso.

— Mica male — disse poi cercando di parlare con voce normale.

Douglas si fece dare la bottiglia. — Be', se lo sopporti tu, credo di riuscirci anch'io.

Alec guardò suo padre trangugiare una lunga sorsata, mentre quel poco che lui aveva bevuto gli bruciava ancora lo stomaco. Bevvero due volte ciascuno prima che Douglas dicesse: — Abbiamo molte cose da dirci.

— Infatti — convenne Alec.

— Forse dovrei andarmene… — disse Will.

— No, resta — ordinò Douglas.

Questo significa che non parleremo di mia madre, pensò Alec, e disse: — I materiali fissili sono spariti.

— È vero. Li abbiamo portati a nord… per custodirli.

— Ne abbiamo bisogno.

— Lo so. Lo sapevo fin da prima che tu nascessi.

— E allora perché li hai portati via? Perché non li hai portati tu stesso sulla Luna? Perché ci hai voltato le spalle e sei rimasto qui? — disse Alec tutto d'un fiato.

Douglas guardò la bottiglia che teneva in mano, poi scosse di colpo la testa come se avesse preso una decisione irrevocabile. — È una lunga storia. Ma tutto porta a un unico innegabile fatto: l'istallazione lunare non può sopravvivere con le sue sole forze. Ha bisogno della Terra. Altrimenti è destinata a morire.

— È ovvio. Ci occorrono quei materiali.

— Non si tratta di questo — Douglas appoggiò un gomito a uno scaffale che gli stava alle spalle. — C'è dell'altro… Non si tratta solo di quei materiali, ma della vita stessa dell'istallazione lunare.

— Non ti seguo.

— Senti… Quando la base lunare è stata creata non fu progettata perché si mantenesse da sola. D'accordo? Quando il sole esplose i lunari si trovarono improvvisamente abbandonati a se stessi.

— E ci siamo mantenuti da soli per più di venticinque anni — ribatté Alec. — Egregiamente!

— Egregiamente — gli fece eco suo padre. — Stronzate! Ma ragiona un po' con un minimo di obiettività: la base lunare funziona tuttora con le macchine istallate prima dell'esplosione solare, non è così? Nessuno ha costruito nuovi reattori, nuovi impianti di lavorazione, nuovi pannelli solari, nuove navette. O sbaglio? Nessuno ha mai nemmeno tentato di rettificare gli impianti di lavorazione in modo da farli funzionare al voltaggio prodotto dalle batterie solari, sì o no? No! Invece non avete fatto che scendere sulla Terra per procurarvi i materiali fissili indispensabili per i reattori nucleari.

— E allora?

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