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Vasily provò. Invano. Teneva gli occhi fissi sullo schermo, perché non voleva vedere nessuno degli uomini e delle donne che stavano dietro di lui. Ma non poteva evitare il riflesso delle loro immagini sul vetro dello schermo. Sembrano già fantasmi, pensò. Sentiva i loro bisbigli, i loro mormoni di spavento. Sentiva la fredda, appiccicosa paura che si era impadronita della base militare sotterranea.

— Non risponde neanche Vorkuta? — chiese il generale, e c'era una nota di supplica nella sua voce aspra.

— No, signore.

— Bratsk?

— No.

Vasily sentì singhiozzare una donna. Il generale gli posò pesantemente la mano sulla spalla. — Non c'è più nessuno — disse con voce rotta. — Tocca a noi. Inviate l'ordine di lancio, continuate a inviarlo finché saranno stati lanciati tutti i missili. Tutti, fino all'ultimo.

— Mia madre — disse qualcuno con voce atona — viveva a Rostov.

Viveva. Pensavano già al passato. Vasily Petrovic Brudnoy tolse la copertura di sicurezza dal pulsante rosso, stringendo i denti tanto da sentire un dolore alle mascelle. Posò il pollice sul pulsante rosso e guardò lo schermo. Se gli americani hanno colpito i nostri silos, siamo fritti, pensò. Ma quasi immediatamente i grappoli di luce da arancione diventarono verdi.

Alle sue spalle, il generale Kubacheff borbottò: — Se non altro i comandi automatici funzionano ancora. Non sono riusciti a metterli fuori uso neanche i tiri diretti. Li avevamo sistemati bene in profondità. — Vasily sentì l'aroma, quasi il gusto dell'ultimo sbuffo di fumo della sua sigaretta. — Bene — disse. — Questa è la fine di tutto. Per lo meno, quei bastardi di americani non vivranno tanto da godersi la vittoria.

La vita umana resisteva, seppure precariamente, sulla Luna, sepolta sotto le rocce dell'enorme cratere Alphonsus. Priva di aria e di acqua, la Luna era un ambiente molto duro per le poche centinaia di ingegneri e tecnici che vi abitavano e lavoravano.

Douglas Morgan stava seduto di fronte a una consolle. Osservava uno schermo monitor installato molto al di sotto della superficie del grande cratere del diametro di centotrenta chilometri. Sullo schermo vide tre uomini in rigide tute bianche intenti a lavorare in superficie. Gli apparecchi posti ai lati dello schermo gli trasmettevano tutte le informazioni essenziali su quei tre: il battito cardiaco, la respirazione, le temperature corporee, la pressione del sangue, e altro ancora. Altri indicatori gli fornivano i dati della temperatura delle rocce riarse dal sole, il livello delle radiazioni in superficie, il numero dei giorni che mancavano al tramonto.

Morgan era un uomo robusto, con le spalle larghe e il torace ampio, braccia nerborute e un chino di capelli color sabbia che continuava a ricadergli sugli occhi azzurri di nordico. Gli seccava starsene lì a svolgere quel compito di controllo. Preferiva lavorare in superficie, all'aperto, anche se questo voleva dire muoversi chiuso dentro un'ingombrante tuta rigida.

Lo schermo s'illuminò improvvisamente e lui dovette chiudere gli occhi per quel bagliore improvviso. Allungò istintivamente la mano verso il pulsante che regolava la luminosità, ma contemporaneamente tre allarmi cominciarono a suonare. Rimase con la mano a mezz'aria.

— Lisa, Fred, Martin, svelti, nel compartimento stagno! — gridò al microfono della consolle. — Muovetevi. Subito!

Le tre figure sullo schermo rimasero indecise, e alzarono gli occhi come se qualcuno avesse dato loro una pacca sulle spalle. Dietro la curva riflettente dei visori non si potevano distinguere le facce. Nessuno avrebbe potuto dire se erano impauriti, sorpresi, seccati.

Ma Douglas Morgan non stava più guardando lo schermo. Dopo avere premuto il pulsante dell'allarme generale si alzò di scatto e corse all'ascensore che portava al compartimento stagno in superficie.

Le tre figure sullo schermo s'illuminarono. Le tute bianche riflettevano il bagliore del sole che ardeva con inconsueta intensità. Il roco suono delle sirene d'allarme si propagò in tutta l'installazione sotterranea, mentre Douglas Morgan correva a lunghi balzi, grazie alla minore gravità lunare, lungo i corridoi che portavano al compartimento stagno. Quando vi giunse e indossò la tuta pressurizzata d'emergenza, due delle figure in rigida tuta bianca stavano già uscendo con passo malfermo dal portello interno del compartimento. Douglas non poteva distinguerli.

— Lisa? — disse, chiamando la moglie. — Sei tu, Lisa?

— Sì, Doug. — La voce suonava spaventata negli auricolari del casco, ma lei era al sicuro, viva, al riparo dai raggi del sole cocente.

— Fred è ancora fuori — disse Martin Kobol, il secondo dei due che erano rientrati. — L'ho visto cadere mentre noi correvamo verso il portello.

Lisa sollevò il visore mettendo in luce un viso aristocratico dall'ossatura delicata. Ma gli occhi scuri erano pieni di terrore.

— Dobbiamo andarlo a prendere — disse in tono pressante. — Doug, fa' qualcosa.

Ma Douglas stava guardando l'indicatore cromatico di radiazioni applicato al petto della tuta di Lisa. L'indicatore era diventato nero. Voltandosi, vide che era nero anche quello di Martin Kobol.

— È troppo tardi — disse, e si sentì stringere il cuore alla constatazione di quanto era avvenuto. — Voi ce l'avete fatta per un pelo. Fred è morto.

— No! — gridò Lisa. — Vallo a prendere! Salvalo!

Riabbassò il visore del casco. Douglas la prese per un braccio, ma lei si liberò con uno strattone. Dovettero intervenire tutti e due per impedirle di entrare nel compartimento.

— No! — gridava lei. — Lasciatemi! Lasciatemi andare da lui!

Intanto stavano sopraggiungendo altri. Douglas e Kobol trattenevano a stento Lisa che si dibatteva e scalciava per liberarsi. Riuscirono ad allontanarsi dal portello, mentre due tecnici spingevano la pesante porta d'acciaio bloccandola coi comandi manuali e un terzo se ne stava in disparte guardando ora i colleghi ora i due uomini che trattenevano Lisa Morgan.

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Quando il sole emanò il suo super-bagliore, sulla Luna morì un uomo, sulla Terra ne morirono miliardi. Il sole tornò alla normalità brillando nel solito modo pacifico e regolare, come se niente fosse successo. Nel lontano passato aveva emesso altre volte enormi ondate di luce e di calore; questo prima che la civiltà umana riempisse la Terra di paesi, fattorie e città. Probabilmente il fenomeno non si sarebbe ripetuto prima di altri centomila anni.

Il Vecchio Mondo era tutto ridotto a una rovina carbonizzata, a un'intera distesa nera e bruciata. Dall'Islanda all'estremo lembo orientale della Siberia il paesaggio si era ridotto ad un'unica silenziosa, fumante devastazione. Le orgogliose città della storia umana erano ridotte a pire riarse gremite di morti. La Torre Eiffel montava la guardia a una Parigi carbonizzata. La rocca dell'Acropoli era circondata da un'Atene bruciata. Il lezzo dei corpi in decomposizione saliva oltre le rovine del Partenone che era crollato sotto il calore insopportabile della micidiale vampata.

Mosca, Delhi, Pechino, Sydney non esistevano più. La tundra dell'Asia settentrionale era annerita per migliaia e migliaia di chilometri, e gli unici animali sopravvissuti erano quelli che si erano scavati una tana abbastanza profonda da sfuggire al calore soffocante e agli incendi.

L'intera Africa era immersa in un silenzio di morte. Uomini, elefanti, foreste, insetti, savane erano ridotti a neri brandelli che la dolce brezza estiva andava riducendo in polvere. Le antiche piramidi erano rimaste intatte, ma il deserto che si stendeva al di là di esse si era trasformato in centinaia di chilometri di vetro scintillante.

Le Americhe erano sfuggite all'improvvisa esplosione solare, ma non all'ira dei sovietici terrorizzati. Missili con testata nucleare erano caduti sull'America Settentrionale e quasi tutte le città erano esplose nell'oblìo sotto una nube a fungo. Il fallout radioattivo aveva ricoperto il continente da un oceano all'altro: dalle foreste del Canada alle giungle dello Yucatan.

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