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La civetta taceva.

— Non ho intercettato i vampiri coi soliti metodi previsti — proseguii comunque. — Sono dovuto entrare in contatto. Non mi sono messo a bere sangue umano. Me la sono cavata con quello di maiale. E tutti questi preparati… già, tu naturalmente li conosci…

Dopo aver accennato ai preparati mi alzai, aprii l'armadietto sopra la cucina a gas, presi un barattolo di vetro. Era rimasta un po' di polverina grumosa e marroncina sul fondo; consegnarla in amministrazione non aveva senso. Versai la polverina nel lavandino e feci scorrere l'acqua: nella cucina si diffuse un inebriante e obnubilante profumo. Risciacquai il barattolo e lo gettai nel secchio della spazzatura.

— Per poco non ho perso il controllo — osservai. — Nel più banale dei modi. Ieri mattina tornavo dalla caccia… e mi sono imbattuto nella mia vicina di casa, una ragazza… Non ho neppure osato salutarla, mi erano già spuntati i canini. E stanotte quando ho sentito il Richiamo diretto contro il ragazzino… per poco non mi sono unito ai vampiri.

La civetta mi fissò negli occhi.

— Pensi che sia per questo che il Capo mi ha incaricato? — Un uccello imbalsamato. Un pugno di piume, imbottito di ovatta. — Perché ti guardassi negli occhi?

Suonò il campanello. Trasalii, allargando le braccia: non c'era niente da fare, era colpa sua, qualunque interlocutore sarebbe stato meglio di questo noioso uccello. Accesi la luce, raggiunsi la porta e aprii.

Sulla soglia c'era un vampiro.

— Entra — gli dissi. — Entra, Kostja.

Indugiò sulla soglia e alla fine entrò. Si lisciò i capelli. Notai che aveva le mani sudate e lo sguardo sfuggente.

Kostja aveva solo diciassette anni. Era un vampiro dalla nascita, un comune, normale vampiro urbano. Una condizione molto sgradevole: i suoi genitori erano vampiri, e un bambino in quelle condizioni non aveva quasi nessuna possibilità di crescere come un essere umano.

— Ho riportato i CD — bofonchiò Kostja. — Eccoli.

Presi la pila di CD, senza neppure stupirmi che fossero così tanti. Di solito occorreva fare lunghe pressioni sul ragazzo per farglieli restituire: era maledettamente distratto.

— Li hai ascoltati tutti? — chiesi. — Li hai registrati?

— Hmm… be', io vado…

— Aspetta. — Lo afferrai per la spalla e lo spinsi dentro la stanza. — Che significa?

Taceva.

— Lo sai già? — gli chiesi, intuendo.

— Noi siamo in pochissimi, Anton. — Kostja mi guardò negli occhi. — Quando qualcuno finisce nel Crepuscolo, lo percepiamo subito.

— Già. Togliti le scarpe, andiamo in cucina e parliamone seriamente.

Kostja non obiettò. Immaginavo eccitato il da farsi. Cinque anni addietro, quando ero diventato un Altro e il mondo mi aveva rivelato il suo lato oscuro, mi attendeva una quantità di scoperte stupefacenti. Ma che proprio sopra di me abitasse una famiglia di vampiri fu una delle più scioccanti.

Lo rammento come fosse ieri. Tornavo dalle lezioni, quelle che mi ricordavano mio malgrado l'istituto che avevo da poco finito di frequentare. Tre lezioni di due ore l'una, un lettore, il caldo soffocante a causa del quale i camici bianchi si attaccavano al corpo; affittavamo un'aula dell'istituto di medicina. Tornando a casa mi trastullavo per strada, finendo ogni tanto nel Crepuscolo per un attimo (non ero ancora così esperto), oppure cominciavo a sondare i passanti. E sulla scala mi imbattei nei vicini.

Persone davvero carine. Volevo chiedere loro in prestito un trapano e il padre di Kostja, Gennadij, muratore di professione, venne da me e mi aiutò a cavarmela con le pareti di cemento, dimostrandomi concretamente come un intellettuale non possa sopravvivere senza l'aiuto di un proletario…

E di colpo capii che loro non erano esseri umani.

Fu terribile. La loro aura grigio-marrone, il senso di oppressione… Rimasi annichilito e li guardi con terrore. Polina, la madre di Kostja, aveva mutato leggermente espressione del viso, il ragazzino era rimasto immobile e si era voltato. E il capofamiglia mi si era avvicinato, scomparendo a ogni passo nel Crepuscolo, con quell'andatura aggraziata tipica dei vampiri che sono a un tempo vivi e morti. Il Crepuscolo è il loro habitat consueto.

— Salve, Anton — mi disse.

Il mondo intorno era grigio e morto. Io stesso non mi accorgevo di come, seguendolo, stessi affondando nel Crepuscolo.

— L'ho sempre saputo che una volta o l'altra avresti oltrepassato la barriera — continuò. — Va tutto bene.

Feci un passo indietro e Gennadij sussultò.

— Tutto in regola — disse. Si aprì la camicia e mostrò il timbro della licenza, un marchio azzurro sulla pelle grigia. — Siamo tutti in regola. Polina! Kostja!

Anche sua moglie aveva attraversato il Crepuscolo e si era sbottonata la camicetta. Il ragazzo non si muoveva, aspettava un cenno dal padre per mostrare anche lui il marchio.

— Devo controllare — mormorai. I miei passi erano incerti, per due volte incespicai e ricominciai da capo. Gennadij aspettava paziente. Il timbro mi diede la risposta che volevo. Si trattava di una registrazione senza scadenza, non c'era nessuna violazione della procedura…

— Tutto in regola? — chiese Gennadij. — Possiamo andare?

— Io…

— Va bene così. Lo sapevamo che prima o poi saresti diventato un Altro.

— Andate — dissi. Non era previsto dal regolamento, ma ora non avevo tempo di pensare alle regole.

— Sì… — Prima di uscire dal Crepuscolo, Gennadij indugiò. — Io sono stato ospite a casa tua… Anton, ti rinnovo l'invito a entrare…

Era tutto in regola.

Quando se ne furono andati mi sedetti su una panchina, accanto a una vecchia che si riscaldava al sole. Mi accesi una sigaretta, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. La vecchia mi fissò e disse: — Brava gente, vero, Arkašen'ka?

Ogni volta confondeva il mio nome. Le restavano ancora sì e no due o tre mesi di vita, lo vedevo con chiarezza.

— Non proprio… — risposi. Fumai tre sigarette e poi me la filai a casa. Mi trattenni un po' sulla soglia a osservare come svanivano le grigie tracce "da vampiro" rimaste. Mi avevano insegnato proprio quel giorno a vederle…

Fino a sera bighellonai. Sfogliai gli appunti che spiegavano quand'era il caso di passare nel Crepuscolo. Nel mondo ordinario questi quaderni sembravano completamente vuoti. Avrei voluto telefonare al coordinatore del mio gruppo oppure al Capo, alla cui tutela ero affidato. Ma sentivo di dover decidere da solo.

Quando arrivò il buio non mi trattenni più. Salii al piano di sopra e suonai. Venne ad aprirmi Kostja. Trasalii. Nella realtà, come anche la sua famiglia, sembrava perfettamente normale…

— Chiama i tuoi vecchi — gli dissi.

— Perché? — borbottò lui.

— Voglio invitarvi a bere un tè.

Gennadij si materializzò dietro le spalle del figlio, all'improvviso: era di gran lunga più dotato di me, che ero un neofita delle Forze della Luce.

— Sei sicuro, Anton? — chiese dubbioso. — Questo non è assolutamente previsto. È tutto in regola.

— Ne sono certo.

Tacque. Si strinse nelle spalle: — Verremo da te domani, se ti va bene. Non amareggiarti.

A mezzanotte ero fuori di me dalla gioia per il loro rifiuto. Verso le tre di notte cercai di addormentarmi, rassicurato dal fatto che non avrebbero mai trovato la strada di casa mia.

Verso mattina stavo in piedi davanti alla finestra, senza aver chiuso occhio, a contemplare la città. Di vampiri ce n'erano pochi. Pochissimi. Nel raggio di due, tre chilometri non ce n'era nessun altro.

Che significava essere rifiutati? Rifiutati non per aver commesso un delitto, ma per l'eventualità potenziale di commetterlo? E che vita poteva mai essere la loro… — anche se vita non era un'espressione del tutto appropriata — sempre sotto sorveglianza?

Tornando dalle lezioni, comprai un dolce per il tè.

Ed ecco qui Kostja, un ragazzo buono, intelligente, studente della facoltà di fisica, che aveva avuto la sfortuna di essere un morto vivente, seduto accanto a me, che faceva girare il cucchiaino nella zuccheriera. Da dove gli veniva tanta timidezza?

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