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Da un certo punto di vista ciò che aveva appena compiuto era uno sperpero: addolcire l'ultima mezz'ora di viaggio nella calura con un assortimento di percezioni tanto prezioso.

— Un nettare così bisognerebbe inalarlo di sera, mangiando spiedini — fece Il'ja. A volte si distingueva per la sua stupefacente insensibilità. Julja si irrigidì.

— Mi ricordo che una volta capitai in Oriente — disse all'improvviso Semën. — Il nostro elicottero… insomma, partimmo a piedi. Gli strumenti tecnici di comunicazione erano andati distrutti, usare la magia sarebbe stato come scorrazzare per Harlem con un cartello con la scritta MORTE AI NEGRI! Ci incamminammo per il deserto del Hadramaut. E per raggiungere l'agente locale rimaneva da percorrere una bazzecola, cento chilometri… forse centoventi. E non avevamo più forze. Niente acqua. Allora Alëška, un bravo ragazzo — adesso lavora a Primor'e — dice: «Oddio, non ce la faccio, Semën Pavlovič, a casa ho lasciato una moglie e due bambini, voglio tornare indietro.» Si sdraia sulla sabbia e riattiva la scorta. Venti minuti di acquazzone torrenziale. Ci dissetammo, riempimmo le borracce e, insomma, ci rimettemmo in forze. Avrei voluto spaccargli la faccia, per non averlo detto prima, ma ebbi pietà.

Dopo una conversazione così lunga, in macchina calò per un attimo il silenzio. Raramente Semën coloriva gli episodi della sua tempestosa biografia in modo tanto pittoresco.

Il'ja si riprese per primo. — Perché allora non hai usato la tua pioggia nella taiga?

— Ho fatto un confronto — sbuffò Semën. La mia pioggia modello da collezione del 1913 e un acquazzone primaverile di serie, raccolto a Mosca; l'acquazzone sapeva di benzina, ci credi?

— Ci credo.

— Questo è il punto. Ogni cosa a suo tempo e luogo. La sera che ho rievocato adesso era gradevole. Ma non eccezionale. Perfettamente adatta a questo tuo macinino.

Svetlana rise piano. La sottile tensione che si era accumulata all'interno dell'auto si scaricò.

Per tutta la settimana i Guardiani della Notte erano stati preda di una grande agitazione. Benché, in apparenza, a Mosca non stesse accadendo niente di particolare. Il solito lavoro di routine. Sulla città gravava una calura senza precedenti per il mese di giugno, e le statistiche degli incidenti erano scese ai livelli minimi. Tutto ciò non piaceva affatto né agli agenti della Luce né a quelli delle Tenebre.

I nostri esperti formularono l'ipotesi secondo cui l'inaspettata canicola era dovuta a un'azione che le Forze delle Tenebre andavano preparando. Di certo, nello stesso tempo, i Guardiani del Giorno avevano cercato di scoprire se per caso non fossero stati i maghi della Luce ad agire sul clima. Quando entrambe le parti si convinsero che gli squilibri atmosferici avevano cause ambientali, si piombò nella più assoluta inattività.

Gli agenti delle Tenebre si calmarono, come mosche abbattute dalla pioggia. Con un tempo così, nonostante tutte le previsioni dei medici, il numero di sciagure e di morti naturali calò. Anche gli agenti della Luce non avevano da lavorare, i maghi litigavano per sciocchezze, per ottenere dall'archivio i più banali documenti toccava aspettare mezza giornata, alla proposta di elaborare una previsione del tempo gli esperti proferivano in tono cattivo: «Scura è l'acqua nelle nubi.» Boris Ignat'evič vagava per l'ufficio con aria completamente stravolta: la calura in versione moscovita aveva prostrato persino lui, con tutti i suoi illustri trascorsi e le sue origini orientali.

Giovedì mattina aveva convocato il personale: con un'ordinanza, la pattuglia chiamava in aiuto presso di sé due volontari, e ai restanti comandava di sparire dalla capitale. Dove meglio credevano: alle Maldive, in Grecia, all'inferno, in una dacia in campagna. L'ordine era di non comparire in ufficio prima di lunedì all'ora di pranzo.

Il Capo attese giusto un minuto, finché su ogni faccia non si fu aperto un largo sorriso di gioia, e aggiunse che sarebbe stato bene ripagare con il lavoro l'inattesa fortuna. Con un impegno eccezionale. Perché non si finisse poi per vergognarsi dei giorni spesi inutilmente. Disse che i classici non a torto affermavano: «Il lunedì comincia di sabato» e che, dati quei tre giorni di ferie, eravamo tenuti a completare tutta l'attività di routine nel tempo rimanente.

Ci mettemmo quindi al lavoro, alcuni fino al mattino. Eseguimmo una verifica sulle Forze delle Tenebre rimaste in città e sotto sorveglianza speciale: vampiri, mutantropi, streghe e tutta l'irrequieta marmaglia dei ranghi più bassi. In quel momento, i vampiri non avevano sete di sangue caldo, ma di birra ghiacciata. Le streghe tentavano non di dare il malocchio al prossimo, ma di provocare una pioggerella leggera su Mosca.

Perciò adesso ce ne andavamo in vacanza. Non alle Maldive, naturalmente: il Capo aveva un po' sopravvalutato la munificenza dell'ufficio contabilità. Ma anche due o tre giorni in campagna erano un'ottima cosa. Poveri volontari, rimasti con il Capo nella capitale, a vigilare e fare la guardia!

— Devo telefonare a casa — disse Julja. Si era visibilmente rianimata, quando Semën aveva sostituito la calura che regnava in macchina con la frescura marina. — Sveta, passami il telefonino.

Anch'io mi godevo il fresco. Guardavo le macchine che sorpassavamo: nella maggior parte dei casi i vetri erano abbassati, e la gente ci lanciava occhiate invidiose, sospettando erroneamente che la vecchia automobile disponesse di un poderoso impianto di climatizzazione.

— Tra poco bisogna svoltare — dissi a Il'ja.

— Me lo ricordo. Ci sono stato, una volta.

— Zitti! — sibilò Julja con voce terribile. E si mise a cicalare nel ricevitore: — Mammina, sono io! Siamo già arrivati. Certo, bene! C'è un lago, qui… No, piccolino. Mammina, posso stare solo un minuto, il papà di Sveta mi ha dato il suo cellulare. No, nessun altro. A Sveta? Sì, subito.

Svetlana sospirò e prese il telefono dalla ragazzina. Mi guardò cupamente e io tentai di conferire alla mia faccia un'espressione seria.

— Buongiorno, zia Nataša — fece Svetlana con voce sottile, infantile. — Sì, tanto contente. Sì… No, con i grandi. Mamma è lontana, devo chiamarla? Sì, glielo riferirò… Senz'altro… Arrivederci.

Spense il cellulare e disse: — Ragazza, cosa succederà quando tua mamma chiederà alla vera Sveta come avete passato la vacanza?

— Sveta risponderà che l'abbiamo passata bene.

Svetlana sospirò e guardò Semën in cerca di sostegno.

— L'utilizzo dei poteri magici per scopi personali porta a conseguenze imprevedibili — disse Semën in tono burocratico. — Se ricordo bene, una volta…

— Ma quali poteri magici?! — esclamò Julja con sincero stupore. — Ho detto alla mamma che andavo a una festa con i ragazzi e ho chiesto a Svetlana di coprirmi. Sveta ha protestato un po', ma poi ha accettato.

Dietro il volante, Il'ja fece una risatina. — Mi ci vuole proprio, questa festa — disse, evidentemente senza rendersi conto che la cosa divertiva lui, ma scandalizzava Julja. — Ma sì, che i marmocchi umani se la spassino. Be', che c'è da ridere? Eh?

A ciascuno di noi Guardiani il lavoro porta via gran parte della vita. Non perché siamo sgobboni esaltati, ma uno sano di mente non preferisce il riposo al lavoro? Non perché lavorare sia poi tanto interessante: gran parte della nostra attività consiste in noiosi pattugliamenti o nel logorarsi il fondo dei pantaloni in ufficio. Ma siamo in pochi. La formazione della Guardia del Giorno si completa molto più facilmente: qualsiasi agente delle Tenebre aspira alla possibilità di esercitare il potere. La nostra situazione è completamente diversa.

Eppure, oltre al lavoro, ciascuno di noi custodisce un pezzettino di vita che non cede a nessuno: né alla Luce, né alle Tenebre. È solo e soltanto nostro. Un pezzettino di vita che non nascondiamo, ma nemmeno mettiamo in mostra, e che costituisce ciò che ci rimane della nostra precedente esistenza umana.

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