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«Sono scappati. Dammi una mano, Tenar.»

Senza lasciare il coltello, Tenar, con la mano libera, prese il braccio dell’uomo raggomitolato sul passaggio. Ged lo afferrò per l’altra spalla; insieme lo trascinarono nella cucina. Quando lo girarono, il sangue gli uscì dal petto come da una bottiglia rotta. Aveva la bocca contorta in una smorfia, e si vedeva solo il bianco degli occhi.

«Chiudi la porta», disse Ged, e Tenar andò a tirare il chiavistello.

«I lenzuoli sono nell’armadio», lo informò Tenar, e Ged andò a prenderne uno e lo tagliò per farne delle bende, con cui fasciò il petto e l’addome dell’uomo, dove tre punte su quattro del forcone erano penetrate a tutta forza, procurandogli tre fori da cui, quando lo mossero per bendarlo, uscirono tre rivoli di sangue. Ged lo tenne sollevato, mentre Tenar legava le bende.

«Perché sei qui? Sei venuto con loro?»

«Sì, ma senza che lo sapessero. Non possiamo fare altro, Tenar.» Lasciò che il corpo dell’uomo si afflosciasse a terra e andò a sedersi, asciugandosi la faccia con il dorso della mano sporca di sangue. «Credo di averlo ucciso», ripeté.

«Forse sì.» Tenar guardò le macchie rosse che si allargavano sulla tela con cui avevano fasciato il torace peloso e scarno dell’uomo. Si alzò in piedi e si sentì girare la testa. «Vieni accanto al fuoco», disse a Ged. «Devi essere intirizzito.»

Tenar si chiese come avesse fatto a riconoscerlo al buio. La voce, forse. Indossava un grosso giaccone da pastore, di pelle di montone rovesciata, e un berrettone di lana calato fino alle orecchie; aveva la faccia coperta di rughe e rossa per le intemperie, i capelli lunghi e grigi. Puzzava di fumo di legna, di gelo, di pecore. In quel momento era scosso da brividi. «Vieni accanto al fuoco», ripeté Tenar. «Mettici un po’ di legna.»

Fece come lei diceva. Tenar riempi il bricco e lo mise a scaldare.

Ged aveva la camicia sporca di sangue, e Tenar prese un pezzo di tela e lo bagnò nell’acqua fredda per pulirgli le macchie. Poi glielo diede perché si pulisse le mani. «Che cosa intendevi dire», chiese, «affermando di averli accompagnati senza che lo sapessero?»

«Stavo scendendo dalla montagna. Lungo la strada che porta alle sorgenti del Kaheda.» Parlava con voce incerta, come se fosse senza fiato, e di tanto in tanto, quando rabbrividiva, incespicava sulle parole. «Ho sentito arrivare degli uomini e ho lasciato la strada, mi sono nascosto tra gli alberi. Non avevo voglia di parlare. Non so perché. Nel loro comportamento c’era qualcosa che non mi andava. Mi sembrava gente poco affidabile.»

Tenar annuì con impazienza e si sedette di fronte a lui, dall’altra parte del focolare, e sporgendosi per sentire meglio. Aveva serrato i pugni; si accorse di essersi bagnata il vestito con l’acqua; sentiva freddo alle gambe.

«Mentre passavano, uno di loro ha detto: ‘Fattoria delle Querce’. Da allora in poi, li ho seguiti. Uno di loro continuava a parlare. Della bambina.»

«E che cosa diceva?»

Ged non rispose subito. Dopo qualche istante, proseguì: «Voleva riprendersela. Perché doveva punirla, diceva. E vendicarsi su di te. Perché l’avevi rubata. E diceva…» S’interruppe.

«Che voleva punire anche me.»

«Questo continuavano a ripeterlo anche gli altri.»

«Non è Faina», disse Tenar, indicando il ferito. «E il…»

«Diceva che la bambina era sua.» Anche Ged diede un’occhiata all’uomo, poi tornò a guardare il fuoco. «Sta morendo. Dovremmo andare a chiamare qualcuno.»

«Non morirà», disse Tenar. «Domattina farò venire Edera. Gli altri sono ancora là fuori. Quanti sono?»

«Due.»

«Se deve morire, morirà, e se deve vivere, vivrà. Ma nessuno di noi deve uscire.» Poi si alzò in piedi di scatto, impaurita. «Hai con te il forcone, Ged?»

Lui indicò le quattro lunghe punte che luccicavano, appoggiate vicino alla porta.

Tenar si sedette nuovamente accanto al fuoco. Adesso, anche lei tremava come una foglia, aveva i brividi come Ged quando era entrato. Lui le toccò il braccio. «Adesso è tutto a posto», disse.

«E se fossero ancora fuori?»

«Sono corsi via.»

«Potrebbero ritornare.»

«Due contro due? E noi abbiamo il forcone.»

Tenar abbassò la voce per dirgli, in un bisbiglio, terrorizzata: «La roncola e la falce sono nella capanna».

Ged scosse la testa. «Sono scappati via. Hanno visto… che lo colpivo… e hanno visto te alla porta.»

«Come hai fatto?»

«È corso verso di me. Così anch’io sono corso verso di lui.»

«Prima, intendo dire. Sulla strada.»

«Dopo un po’ hanno cominciato ad avere freddo. Si è messo a piovere, e avevano freddo, e hanno iniziato a parlare di venire qui. Prima, c’era soltanto uno di loro, questo, che parlava della bambina e di te, e di darvi… una lezione.» Non riuscì a proseguire. «Ho la gola secca», disse.

«Anch’io. Ma l’acqua non bolle ancora. Continua.»

Ged riprese fiato e cercò di raccontare in modo coerente la sua storia. «Gli altri due non gli avevano dato molto ascolto, fino a quel momento. Probabilmente gliel’avevano già sentito dire molte volte. E avevano fretta di arrivare a Valmouth: sembravano in fuga; era come se si fossero dovuti allontanare di corsa. Ma poi aveva cominciato a fare freddo, e lui parlava sempre della Fattoria delle Querce, e allora uno degli altri, quello con il berretto di cuoio, ha detto: ‘Be’, perché non andare laggiù a passare la notte con…’»

«Con la vedova, certo.»

Ged abbassò la faccia. Tenar aspettò che riprendesse.

Con gli occhi fissi sul fuoco, Ged continuò: «Poi li ho persi di vista. Nella valle, la strada procede in piano, e non potevo seguirli come avevo fatto sino a quel momento, in mezzo agli alberi, dietro di loro. Dovevo allontanarmi, tagliare per i campi senza farmi vedere. Non conosco la zona, qui; solo la strada, e avevo paura di perdermi, di non trovare la casa, se avessi imboccato delle scorciatoie. Poi si è fatto buio, e io temevo di avere già oltrepassato la fattoria, perciò sono ritornato sulla strada, e per poco non sono finito addosso a loro, che si erano fermati qui, al bivio. Avevano visto uscire il vecchio, e avevano deciso di aspettare che fosse buio, per evitare il pericolo che arrivasse qualcuno. Si sono nascosti nel fienile. Io ero fuori, addossato alla parete».

«Devi essere mezzo congelato», disse Tenar, cupa.

«Sì, faceva freddo.» Tese le mani in direzione del fuoco, come se il pensiero del freddo gliele avesse raggelate di nuovo. «Ho trovato il forcone accanto alla porta della capanna. Quando sono usciti dal loro nascondiglio, si sono diretti alla porta sul retro. Io sarei potuto venire all’ingresso per avvertirti, sarebbe stata la mossa più intelligente, ma riuscivo solo a pensare a coglierli di sorpresa: pensavo che fosse il mio unico vantaggio… che tutte le porte fossero sprangate e che dovessero entrare con la forza. Ma poi ho visto che sono entrati dalla porta sul retro, senza colpo ferire. Io sono entrato dopo di loro. Me la sono cavata per un pelo, quando hanno trovato la porta chiusa.» Fece una sorta di risatina. «Sono passati accanto a me, nel buio. Avrei potuto fargli lo sgambetto. Uno di loro aveva esca e acciarino, e accendeva un bastoncino di legno quando volevano controllare qualche chiusura. Sono arrivati alla porta d’ingresso. Ho sentito che chiudevi le imposte, e ho capito che li avevi scoperti. Parlavano di rompere la finestra dove ti avevano scorta. Poi quello dal berretto ha visto la finestra della cucina.» Indicò la finestra con il lungo e ampio davanzale. «Ha detto: ‘Trovatemi una pietra, rompo il vetro’. Gli altri lo hanno raggiunto e lo stavano aiutando a salire, quando sono intervenuto io. Ho lanciato un grido, e loro hanno lasciato cadere il compagno; poi, uno di loro… questo… si è gettato contro di me.»

«Ah, ah…» mormorò il ferito, dal pavimento, come se volesse intervenire nel racconto di Ged. Questi si alzò e si curvò su di lui.

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