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Così era giunto Pioppo, che aveva presentato i suoi omaggi — nulla di più — a Ogion, e che, riferì Muschio, non usciva mai dal castello. Da allora, aveva continuato la strega, il nipote non si era più visto, e si diceva che stesse tutto il giorno a letto. «Sembra un bambino malato, tutto raggrinzito», aveva detto una delle donne che erano entrate nel castello per qualche commissione. Mentre il vecchio signore, «che ha cent’anni, forse più che meno», spiegò Muschio — la strega non aveva paura dei numeri, né alcun rispetto per loro -, ebbene, il vecchio signore era rifiorito, «pieno di linfa», lo definivano. E uno degli uomini (al castello tutta la servitù era composta di uomini) aveva detto a una delle confidenti di Muschio che il vecchio signore aveva fatto venire il mago perché lo facesse vivere per sempre, e che così il mago stava facendo, nutrendolo, aveva detto l’uomo, con la vita del nipote. In tutto questo, l’uomo non aveva visto niente di male, e si era limitato a commentare: «E chi non vorrebbe vivere per sempre?»

«Be’», confermò Tenar, «è davvero una brutta storia. Nel villaggio non dicono niente?»

Muschio alzò le spalle. Era la solita reazione: «Lascia perdere». La gente comune non doveva giudicare la condotta dei potenti. E c’era una sorta di fedeltà cieca, di legame con le proprie origini: il vecchio era il loro signore, il Signore di Re Albi, e nessuno poteva sindacare il suo comportamento… La stessa Muschio la pensava così, almeno in parte. «È rischioso», fu l’unico commento che fece. «Una simile trovata rischia di non riuscire», ma non disse che era qualcosa di malvagio.

Al castello nessuno aveva visto quel giovane, Faina. Per assicurarsi che avesse lasciato la zona, Tenar chiese a un paio di conoscenti, al villaggio, se avessero visto uno che gli assomigliava, ma ottenne solo qualche risposta ambigua. Non volevano avere a che fare con le sue faccende: «Lascia perdere», le dicevano come al solito. Soltanto il vecchio Ventaglio la trattava con amicizia, come una compaesana, ma probabilmente solo perché era molto miope e non aveva visto bene Therru.

Adesso, Tenar prendeva con sé la bambina quando si recava al villaggio o quando si allontanava dalla casa.

A Therru, la vicinanza forzata non dispiaceva. Stava accanto a Tenar come avrebbe fatto una bambina molto più piccola, e lavorava con lei o giocava. I suoi giochi consistevano nel ripiglino, nel fare cestini, e nel baloccarsi con un paio di figurine intagliate nell’osso che Tenar aveva trovato in un sacchettino di fili d’erba, tra le cose di Ogion. Una di esse era un animale che poteva essere un cane o una pecora, e l’altra era una figura umana, uomo o donna. Tenar non aveva percepito in essi alcuna magia, e Muschio aveva sentenziato: «Sono solo giocattoli». Per Therru, comunque, costituivano una grande meraviglia. Li muoveva per ore, creando con essi, in silenzio, lunghissime storie; quando giocava, non parlava mai. A volte costruiva casette per l’uomo e l’animale, fortini di pietre, capanne di paglia e fango. Le aveva sempre con sé: in tasca o nella loro borsa di fili d’erba. Intanto, la bambina imparava a filare: teneva la conocchia nella mano bruciata e il fuso nell’altra. Avevano continuato a pettinare con regolarità le capre fin dal giorno del loro arrivo, e adesso avevano un grosso sacco di lana da filare.

«Dovrei cominciare a istruirla», pensava Tenar, preoccupata. «Ogion mi ha detto di insegnarle tutto, e io che cosa le insegno? A cucinare e a filare?» E un’altra parte della sua mente le rispondeva, con la voce di Goha: «E non sono due arti utili e nobili? La saggezza risiede solo nelle parole?»

La cosa, però, continuò a preoccuparla, e un pomeriggio, mentre Therru pettinava la lana per pulirla e renderla più lavorabile, e lei stessa la cardava, all’ombra del pesco, disse: «Therru, forse dovresti cominciare a imparare il vero nome delle cose. C’è una lingua in cui tutte le cose hanno un nome vero, e parole e azioni sono tutt’uno. Parlando quella lingua Segoy ha innalzato le isole dal profondo del mare. È la lingua parlata dai draghi».

La bambina ascoltava in silenzio.

Tenar posò il pettine e prese da terra una piccola pietra. «In quella lingua», disse, «la pietra si chiama tolk.»

Therru la osservò attentamente e ripeté la parola, tolk, ma senza voce, limitandosi a formarla con le labbra, che erano sempre tirate verso la parte destra, a causa della cicatrice.

La pietra continuò a rimanere una semplice pietra sul palmo di Tenar.

Nessuna delle due fece commenti.

«È ancora presto», disse infine Tenar. «Forse ci sono altre cose che devo insegnarti, adesso.» Lasciò cadere a terra la pietra e riprese il pettine e una massa di lana grigia e soffice che Therru aveva preparato per la cardatura. «Forse è meglio aspettare che ti sia dato il tuo nome vero. È ancora presto. Ascolta, questo, invece, è il momento di insegnarti le storie. Posso raccontarti storie dell’Arcipelago e delle terre di Karg. Una volta ti ho narrato una storia che mi era stata raccontata dal mio amico Aihal il Taciturno. Adesso te ne racconterò un’altra che ho imparato dalla mia amica Lodola, quando la raccontava ai nostri figli. La storia di Andaur e Avad. In un tempo lontano come mai, in un paese distante come Selidor, c’era un uomo chiamato Andaur, un boscaiolo, che si recò da solo nella foresta. Un giorno, in mezzo ai boschi, abbatté una grande quercia che, nel cadere, gridò con voce umana…»

Fu un piacevole pomeriggio per tutt’e due.

Ma quella notte, mentre giaceva accanto alla bambina addormentata, Tenar non riuscì a prendere sonno. Era assillata da mille piccole preoccupazioni… Ho chiuso il cancello del recinto? La mano mi fa male perché ho cardato tanta lana, oppure sarà un inizio di artrite? E così via. Poi cominciò ad allarmarsi, perché le parve di sentire dei rumori dall’esterno. Mi sarei dovuta prendere un cane, pensò. Che sciocchezza, non avere un cane. Oggigiorno, una donna e una bambina che vivono da sole dovrebbero avere un cane. Ma questa è la casa di Ogion! Nessuno si sognerebbe di venire qui con intenzioni malvagie. Ma Ogion è morto, l’hanno sepolto tra le radici del suo albero preferito, ai margini del bosco. E non verrà nessuno ad aiutarti. Sparviero se n’è andato, è scappato via. E non è neppure più Sparviero, è un’ombra, inutile a tutti, un morto costretto a vivere. E io non ho forza, non c’è niente di buono in me. Dico la Parola della Creazione ed essa mi muore sulle labbra, è priva di significato. Una pietra. Sono solo una donna, vecchia, debole e stupida. Tutto quel che faccio è sbagliato. Tutto quel che tocco diventa cenere, ombra, pietra. Sono la creatura delle Tenebre, gonfia di Tenebre. Solo il fuoco può purificarmi. Solo il fuoco può divorarmi, consumarmi come…

Si rizzò a sedere, e gridò, nella sua lingua materna: «La maledizione ritorni su chi l’ha scagliata!» Alzò quindi la mano destra e l’abbassò, puntandola in direzione della porta. Poi balzò giù dal letto e corse alla porta, la spalancò e urlò alla foschia della notte: «Sei arrivato troppo tardi, Pioppo. Io sono già stata divorata molti anni fa. Va’ a ripulire col fuoco casa tua!»

Non ci fu risposta, non si udì alcun rumore, tranne un vago, sgradevole puzzo di bruciato, come se avessero dato fuoco a dei capelli o a della lana.

Tenar sbarrò la porta, vi appoggiò il bastone di Ogion, e andò a controllare Therru, per vedere se dormiva ancora. Però, quella notte, non riuscì a prendere sonno.

La mattina seguente, Tenar portò Therru al villaggio: intendeva chiedere a Ventaglio se voleva la lana che lei e la bambina avevano filato. Era soprattutto una scusa per allontanarsi dalla casa e per stare per qualche tempo tra la gente. Il vecchio disse che sarebbe stato lieto di tessere la sua lana, e parlarono per qualche minuto, sotto il grande ventaglio dipinto, mentre l’apprendista li guardava imbronciata e continuava a manovrare la spola. Quando Tenar e Therru lasciarono la casa del tessitore, qualcuno corse a nascondersi dietro la casetta in cui, un tempo, Tenar era andata ad abitare. La donna si sentì pungere il collo come da api o vespe, e udì un ticchettio, come se piovesse… ma in cielo non c’erano nuvole. Poi vide i sassolini che cadevano a terra. Therru si fermò e si guardò attorno, senza capire. I due ragazzini che si erano nascosti dietro la casupola corsero via, senza preoccuparsi eccessivamente di non farsi riconoscere, ridendo e schiamazzando.

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