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Premette con il pollice e la porta si aprì e una vampata di calore lo investì, ma oltre la soglia non c’era nessuna stanza. C’era il deserto… un deserto giallo e dorato che si stendeva fino a un orizzonte nebuloso e ardente, nel calore torrido di un enorme sole azzurro.

Una creatura verde e purpurea che avrebbe potuto essere una lucertola, ma non lo era, saettò rapidissima sulla sabbia riarsa, producendo un rumore soprannaturale e assurdo con i suoi piedini minuscoli, un sibilo frusciante che faceva rabbrividire.

Jenkins chiuse con forza la porta, stordito, sentendosi confuso e stanco e sconvolto.

Un deserto. Un deserto e una creatura che schizzava via guizzando veloce. Non un’altra sala, non un corridoio solenne, nemmeno una veranda o un giardino o un cortile… ma solo un deserto.

E il sole era azzurro… azzurro e rovente.

Lentamente, cautamente, aprì di nuovo la porta, prima una sottile fessura, che poi allargò un poco.

Il deserto era ancora là.

Jenkins sbatté la porta e si appoggiò a essa con la schiena, come se fosse stata necessaria la forza del suo corpo di metallo per tener fuori il deserto, per tener fuori ciò che la porta e il deserto facevano intuire.

Erano intelligenti e astuti, si disse. Intelligenti e astuti e rapidi di mente. Troppo intelligenti e troppo astuti e troppo veloci per i comuni uomini. Non abbiamo mai saputo, in realtà, fino a qual punto arrivasse la loro intelligenza. Ma adesso so ch’erano più intelligenti di quel che potessimo immaginare.

Questa sala è solo l’anticamera di molti altri mondi, una chiave protesa attraverso spazi incommensurabili per giungere ad altri pianeti che ruotano intorno a soli sconosciuti. Un modo di lasciare questa Terra senza mai lasciarla davvero… un modo di attraversare l’abisso del vuoto siderale semplicemente varcando la soglia di una porta.

C’erano delle altre porte e Jenkins le guardò e scosse il capo.

Lentamente ritornò sui suoi passi, attraversò la sala e raggiunse la porta d’ingresso. Silenziosamente, timoroso di rompere la quiete antica della sala polverosa, abbassò il saliscendi e uscì, e davanti a lui ritrovò il mondo familiare, il mondo che conosceva. Il mondo della luna e delle stelle, della nebbia che salendo lenta dal fiume ondeggiava umida tra le colline, delle cime degli alberi che si scambiavano parole di vento sulle pendici delle colline erbose.

I topi correvano ancora nelle gallerie delle loro tane tra l’erba, pensando pensieri felici di topi che a malapena si potevano considerare pensieri. Un gufo stava appollaiato torvo su un ramo e i suoi pensieri erano pensieri di morte.

Così vicino, pensò Jenkins. Ancora così vicino alla superficie di ogni mente di animale, l’antico e famelico istinto del sangue, l’antico odio, l’antico piacere della caccia. Ma oggi noi stiamo dando loro una partenza migliore di quella che l’Uomo ebbe nel suo tempo… anche se, probabilmente, il genere di partenza non avrebbe mai cambiato il corso preso dal genere umano.

E ora è qui di nuovo, l’antica sete di sangue dell’Uomo, il desiderio ardente di essere diverso e di essere più forte, di imporre la propria volontà con strumenti da lui inventati… strumenti che rendono il suo braccio più forte di qualsiasi altro braccio o zampa o artiglio, che fanno i suoi denti più aguzzi e taglienti di qualsiasi zanna naturale, per arrivare a colpire e a far male e a ferire e a uccidere anche a distanze di molto superiori alla portata del suo braccio.

Credevo di poter ottenere aiuto. Per questo sono venuto qui. E l’aiuto non c’è.

Nessun aiuto, né ora, né mai. Perché i Mutanti erano i soli che avrebbero potuto aiutarmi, e se ne sono andati.

Tocca di nuovo a te, si disse Jenkins, scendendo lentamente la grande scalinata del castello. L’umanità è un problema tuo, è nelle tue mani ed è un peso sulle tue spalle. Devi riuscire a fermarli in qualche modo. Devi riuscire a cambiarli in qualche modo. Non puoi permettere che trasformino di nuovo il mondo in un mondo dell’arco e della freccia.

Camminò nell’oscurità fatta di foglie vibranti e conobbe il profumo delle foglie marcite dell’autunno lontano, sotto il nuovo mantello delle cose verdi che crescevano tenere, e questa era una cosa, pensò, che non aveva mai conosciuto prima.

Il suo vecchio corpo non aveva avuto il senso dell’olfatto.

L’olfatto e una vista migliore e un senso nuovo, il senso di sapere ciò che una creatura stava pensando, di leggere i pensieri dei procioni, di intuire i pensieri dei topi, di riconoscere la morte e l’istinto omicida nella mente dei gufi e delle donnole.

E c’era qualcos’altro… c’era un odio sfumato e remoto che gli giungeva portato dal vento, un urlo di terrore alieno, un vago profumo di morte.

La sensazione portata dal vento vibrò per un istante nella sua mente, e Jenkins si fermò bruscamente, e poi si mise a correre, a salire a grandi passi le pendici della collina, non come un uomo avrebbe potuto correre nelle tenebre, ma come un robot poteva correre, vedendo nel buio e con la forza del metallo che non conosce l’ansito affannoso e i polmoni brucianti per la fatica.

Odio… e poteva esistere un solo odio simile a quello che aveva captato.

La sensazione si fece sempre più forte e più distinta, mentre Jenkins saliva per il sentiero a grandi passi, e la sua mente già tremava per la paura… la paura di quel che avrebbe trovato.

Superò un gruppo di folti cespugli e si fermò di colpo.

L’uomo avanzava, tenendo le braccia lungo i fianchi e le mani racchiuse ad artiglio, e sull’erba giaceva dimenticato l’arco dalla corda spezzata. Il corpo grigio del lupo giaceva per metà sotto i raggi della luna, per metà nell’ombra, e da esso indietreggiava una cosa inesprimibile, che per metà era ombra e per metà era luce, che si vedeva quasi, s’intuiva sempre, ma non si distingueva con certezza, simile a una creatura immaginata vista come un fantasma in un sogno.

«Peter!» gridò Jenkins, ma le parole non gli uscirono dalle labbra d’acciaio.

Perché Jenkins avvertiva la disperata frenesia nella mente della creatura d’ombra, la frenesia del terrore più abietto provocato dall’odio dell’uomo che avanzava verso la chiazza indistinta e viva, che sbavava e soffiava e ringhiava nel buio. Il terrore più abietto e la necessità più disperata… la necessità di trovare qualcosa, di ricordare qualcosa.

L’uomo era ormai vicinissimo all’ombra, avanzava camminando sicuro ed eretto… un uomo dal corpo fragile e dai pugni ridicoli… e dal coraggio smisurato. Coraggio, pensò Jenkins, tanto coraggio da sfidare perfino l’inferno, da scendere nel pozzo delle anime e attraversare il regno delle tenebre per gridare una parolaccia di scherno allo stesso custode dei dannati.

E poi la creatura d’ombra trovò quel che cercava… seppe qual era la cosa da fare. Jenkins avvertì l’ondata di sollievo che pervase il corpo della creatura, udì la cosa, in parte parole, in parte simboli, in parte pensiero, ch’essa eseguì. Come una formula magica, come un rito propiziatorio, come un incantesimo, ma solo in parte. Un esercizio mentale, un pensiero che prendeva possesso del corpo, di ogni fibra del corpo… questa definizione era più vicina alla verità.

Perché non si trattava di un vuoto incantesimo, ma di qualcosa di più. Era qualcosa che funzionava.

E funzionò.

La creatura svanì. Svanì e se ne fu andata… fuori del mondo.

Non c’era più alcun segno della sua esistenza, non c’era una sola vibrazione del suo essere. Come se essa non fosse mai esistita.

E la cosa che aveva detto, la cosa che aveva pensato? Era così, ricordava. Era così…

Jenkins si trattenne in tempo. La cosa era impressa nel suo cervello e lui sapeva, conosceva le parole e il pensiero e l’intonazione esatta… ma non doveva usarla, doveva dimenticarla, doveva tenerla nascosta, celata.

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