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ANNOTAZIONI SUL PRIMO RACCONTO

Non c’è dubbio che, tra tutti i racconti, il primo sia il più ostico per il lettore occasionale. Non soltanto per la sua nomenclatura astrusa, ma perché la logica e le idee in esso contenute appaiono, a una prima lettura, totalmente aliene. Questo può essere dovuto al fatto che in questo racconto, come nel successivo, non agisce — e neppure figura — alcun cane. Dal paragrafo di apertura di questo primo racconto il lettore viene immerso in una situazione completamente estranea alla sua mentalità, con protagonisti altrettanto estranei che agiscono fino alla soluzione. Bisognerà però spendere una parola in favore di questa storia… quando il lettore avrà raggiunto la fine della serie dei racconti, questa storia gli sembrerà, in confronto, addirittura domestica.

Il concetto dominante dell’intero racconto è quello della città. Mentre non si hanno elementi di conoscenza completi su quello che possa essere stata una città, o sul motivo della sua esistenza, in genere si tende ad ammettere che essa abbia potuto essere una parte ristretta di territorio che ospitava e alimentava un grande numero di abitanti. Alcuni motivi della sua esistenza vengono spiegati superficialmente nel testo, ma Salta, che ha dedicato tutta una vita allo studio della leggenda, è convinto che la spiegazione sia dovuta esclusivamente alle abili improvvisazioni alle quali è dovuto ricorrere un antico narratore per sostenere un concetto impossibile. Molti studiosi concordano con Salta sulla completa mancanza di logica delle ragioni fornite dalla storia e alcuni, tra i quali Vagabondo, sono giunti perfino a sospettare che ci si possa trovare di fronte a un’antica satira, della quale si è perduto il significato.

Le maggiori autorità dell’economia e della sociologia ritengono che un organismo quale dovrebbe essere la città sia una struttura impossibile, non solo dal punto di vista economico, ma anche sociologico e psicologico. Nessuna creatura dotata del sistema nervoso complesso che è necessario per dare vita a una civiltà, dicono questi studiosi, potrebbe sopravvivere in un ambiente così ristretto. Il risultato, affermano queste autorità, ammettendo per un istante che un simile esperimento possa venire tentato, sarebbe una nevrosi di massa che in breve tempo distruggerebbe la stessa civiltà che aveva costruito la città.

Vagabondo afferma che, nel primo racconto, noi ci troviamo di fronte al mito allo stato puro, e, di conseguenza, non possiamo accettare il valore apparente di nessuna affermazione e di nessuna situazione in esso contenute; perciò, continua il Vagabondo, l’intera storia deve essere impregnata d’un simbolismo la cui chiave è andata perduta già da molto tempo. È però sconcertante il fatto che, se di mito si tratta, la sua forma non sia giunta a noi, oggi, con i concetti simbolici che sempre si associano al mito. Nel racconto invece esiste ben poco che il lettore possa interpretare in chiave mitica. Esso, anzi, è probabilmente il più duro e spigoloso tra tutti… secco e ostico, totalmente arido, senza nessuna delle sfumature di sentimenti più elevati e di ideali alati che si possono trovare nelle parti successive della leggenda.

Il linguaggio del racconto è particolarmente arduo. Frasi come la classica «miseria ladra» hanno sconfitto per molti secoli ogni tentativo di analisi degli studiosi di semantica, e ancora oggi non siamo vicini alla soluzione del significato di molte parole e di molte frasi più di quanto non lo fossero i primi studiosi che dedicarono una seria attenzione alla leggenda.

Dobbiamo comunque ammettere che la terminologia usata in riferimento all’Uomo è stata ricostruita in maniera abbastanza soddisfacente. Sappiamo che il plurale di questa mitica razza è uomini, la designazione vera e propria della razza è umana, le femmine sono chiamate donne o mogli (due termini che possono avere avuto, un tempo, una maggiore sfumatura di significato, ma che noi oggi dobbiamo considerare sinonimi), i cuccioli sono chiamati bambini. Un cucciolo maschio è un bambino. Un cucciolo femmina è una bambina.

Oltre al concetto di città, un altro concetto che il lettore troverà completamente antitetico al suo sistema di vita e che potrà violentemente offendere il suo modo di pensare, è l’idea della guerra, cui si associa l’idea di uccidere. Uccidere è un processo, che comporta usualmente violenza, grazie al quale una creatura vivente pone fine alla vita di un’altra creatura vivente. La guerra, parrebbe, era un processo di uccisione di massa eseguito su una scala addirittura inconcepibile.

Vagabondo, nel suo studio della leggenda, si è convinto che i racconti siano assai più primitivi di quanto generalmente si supponga, dato che, a suo avviso, concetti quali la guerra e l’uccidere non avrebbero mai potuto uscire, in nessuna epoca storica, dalla nostra attuale civiltà, e che perciò essi dovevano scaturire da un’epoca di profonda barbarie, della quale non esiste più traccia.

Stecco, rimasto praticamente il solo a credere che i racconti siano basati su elementi storici reali, e che la specie dell’Uomo sia esistita nei primi tempi della civiltà canina, afferma che il primo racconto è in realtà la storia della vera caduta della civiltà dell’Uomo. A suo avviso il racconto, come lo conosciamo oggi, può essere il pallido riflesso giunto fino a noi di una storia ben più vasta, di un’epopea gigantesca che, un tempo, doveva essere stata lunga quanto e più dell’intera leggenda che noi oggi possediamo. Non appare possibile, scrive Stecco, che un evento così grande quale il crollo di una poderosa civiltà meccanica sia stato condensato dai contemporanei della storia in limiti angusti come quelli del racconto in oggetto. Ciò che ci è giunto, afferma lo studioso, è solo uno dei molti racconti che narravano l’intera storia, e probabilmente quello che ci è rimasto è solo uno dei racconti minori di questa grande epopea.

I

LA CITTÀ

Pa’ Stevens era seduto sullo sdraio, e mentre seguiva con lo sguardo la falciatrice al lavoro sentiva i raggi dolci del sole affondare gentili nel suo corpo, scaldargli le ossa. La falciatrice giunse al margine del prato, chiocciò come una gallina soddisfatta, eseguì una curva perfetta e ricominciò a falciare un’altra striscia di prato. La sacca che conteneva l’erba tagliata continuava a gonfiarsi.

D’un tratto la falciatrice si fermò e cominciò a ticchettare, irritata. Un pannello, sul suo fianco, si aprì di scatto, e un braccio simile a una piccola gru uscì dall’apertura, e scese verso il basso. Dita prensili d’acciaio pescarono tra l’erba, e risalirono, trionfanti, stringendo un sasso; lo calarono in una piccola cassetta, e sparirono nuovamente all’interno del pannello. La falciatrice gorgogliò, e ricominciò a fare le fusa come un grosso gatto satollo, seguendo la striscia di prato.

Pa’ grugnì, guardando con aria sospettosa la macchina.

«Un giorno o l’altro,» bofonchiò, «Quella miseria di un aggeggio si farà scappare uno stuzzicadenti, e si prenderà l’esaurimento nervoso.»

Abbassò lo sdraio e guardò in alto il cielo bagnato dal sole. Un elicottero scintillava altissimo. Da un punto imprecisato della casa giunse un insopportabile miagolio musicale. Qualcuno aveva acceso la radio. Pa’, ascoltando la musica, rabbrividì e sprofondò ancor più nello sdraio.

Era Charlie, che si preparava a una di quelle prove di contorsionismo che chiamava ballo. Miseria d’un ragazzo.

La falciatrice gli passò accanto, chiocciando allegramente, e Pa’ le lanciò un’occhiata maliziosa.

«Automatica» disse, guardando il cielo. «Adesso tutti i maledetti congegni sono automatici. Adesso ti basta guardare una macchina e dirle qualcosa all’orecchio e lei si ammazza per fare tutto il lavoro.»

La voce di sua figlia che gridava per sovrastare l’infernale frastuono della radio, lo chiamò dalla finestra.

2
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